Domenica – Arriva sempre puntuale come un orologio svizzero: è la zia petulante e noiosa che citofona al campanello alla stessa ora.

Domenica. Te la dimentichi ma ritorna ogni volta identica alla precedente.
É pigra, vecchia come il cucco, abituata a stare al centro dell’attenzione sin dall’alba dei tempi.

Succede tra le cinque del pomeriggio e le sette della sera, a seconda della stagione, appena fa buio lei arriva.

Domenica passa a ricordarti che domani c’è scuola e devi ancora finire i compiti. Ti imposta la sveglia alle sette perché c’è di turno il capo stronzo e devi arrivare in orario.

Domenica entra in casa tua mentre sprofondi nel divano, con il riverbero negli occhi, il pranzo che rotola nello stomaco, contemplando i minuti che si sgretolano sul pavimento, ore preziose che nessuno ti darà mai indietro.
Ma tu non puoi fare altro perché questa giornata è votata al torpore.

Domenica è il giorno più famoso di tutti, l’anniversario della settimana.

Dall’espressione latina dies Dominicus, giorno del Signore. Settimo della settimana: benedetto da Gesù e consacrato al riposo perché in esso aveva cessato da ogni opera che egli aveva fatto creando gli altri sei. Almeno così dice Mosé. 

Il termine anglosassone è Sunday, giorno del sole, dal latino dies Solis. 
É tante cose: ricorrenza religiosa e sacra, tempo di riposo e raccoglimento.
È il punto d’arrivo, esplosione del climax accumulato tra lunedì e sabato. 

La tristezza che mi trasmette la domenica è la stessa da ventisei anni: fastidiosamente famigliare, e nonostante i miei migliori sforzi, spesso irreversibile. Mi tocca prendere tutti i piccoli grandi micro piaceri del fine settimana e archiviarli per lasciare spazio agli impegni del lunedì mattina.

La Domenica sono i titoli di coda, poco conta se il film è stato bello o brutto, tra poco sarà finito e riavvolto da capo.

É una conferma del fatto che sono ancora vivo e un passetto in più verso la morte: desolata, lenta, decadente.

Nel 2013 le percentuali del sito monster.com confermano che l’81% degli americani vivono ciclicamente la tristezza della domenica sera, rinominata sunday-night-blues.

La Domenica sera non è considerata la fine di un grande weekend ma l’inizio di qualcosa che né un bambino o un adulto sta aspettando impazientemente” dice Stuart Brown, psichiatra presso il National Institute for Play, in California.

É il presagio del lunedì. Eppure non ci uccide mai davvero, sappiamo adattarci allo scomodo ordine degli eventi, ridimensionandosi in un ciclo che dovremmo aver imparato a riconoscere.

Eppure prevedere la settimana fa più male che viverla: “Psicologicamente, percepiamo una minaccia” dice Jonathan Abramovitz, professore presso University of North Carolina a Chapel Hill. Ci minaccia il presagio di non farcela: conclusioni affrettate e una notevole tendenza a sottovalutare le proprie capacità, dice Abramovitz. 

In un articolo del 1991, il New York Times riscontra tra principali cause dei sunday blues il ciclo di sonno sballato, assenza di caffeina, hungover, e il ritorno ad una routine che non ci piace. 

Come curare la tristezza della Domenica? Anne Helen Petersen, scrittrice per Buzzfeed e autrice del libro Can’t Even: How Millennials Became the Burnout Generationrisponde: “Riparate il capitalismo! Un piccolo cambio nella nostra routine domenicale non risolverà un problema strutturale intrinseco dentro la nostra società.”

E riducendo i giorni lavorativi a quattro? “Se le persone avessero un giorno di riposo in più, offrirebbe loro molte più possibilità di fare quello che desiderano” dice Petersen.

Riavvolgere la settimana da capo ci costringe a fare i conti con ogni spicchio d’ansia che eravamo riusciti a mettere in archivio.

I nostri genitori non avevano tempo per ribellioni o passi falsi: saltavano sul carrozzone in corsa, fin troppo grati di non essere rimasti in mezzo alla strada per chiedersi dove li stesse portando.

Ci è stato detto che se non stiamo a passo con il mondo, finiamo indietro, ai margini della società.

Domenica ci costringe a fare i conti con il nostro percorso, a chiederci a che punto della corsa siamo arrivati.

La nostra coscienza soppressa in un angolo per tutta la settimana, trova spazio solo Domenica, quando abbassiamo le difese e allentiamo la presa.

Cosa succederebbe se prendessimo la tristezza della Domenica e la trasferissimo al resto della settimana? Portandola al centro della conversazione nel tragitto da casa a scuola, alle spalle del capo che ci spaventa e oltre la fine del turno?

Potremmo lasciar parlare tutta questa tristezza, accoglierla al tavolo con i nostri amici, famigliari, colleghi, non più come un’ombra che incombe tra le cinque e le sei di sera, ma parte integrante della nostra quotidianità.

Il carrozzone corre su una strada spianata, ma potremmo permetterci di guardare fuori il finestrino e osservare ogni pezzo dimenticato durante la corsa, ponderare le distanze tra noi e il terreno, e al momento più sicuro, se mai esiste un momento davvero sicuro, tuffarci su un’altra strada. 

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