Selfie – È giusto scattarsi un selfie con un Van Gogh? Andiamo alle mostre per dire di esserci stati con una storia Instagram senza capirle davvero?

Selfie è un progetto editoriale e fotografico nato a distanza: due viaggi differenti di due autori differenti che si sono conosciuti per caso condividendo il loro interesse nato dall’osservazione degli utenti dei musei e dei turisti in due grandi città mondiali: New York e Shanghai.

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«Finalmente sono tornata a New York, finalmente ho potuto visitare la nuova programmazione del MoMa. Eccomi, macchina fotografica al collo, felpa infinita, taccuino sotto braccio. Una giornata da dedicare ai pensieri, mi voglio immergere, voglio vedere, voglio scrivere, voglio lasciarmi ispirare. Lascio il piumino in guardaroba e finalmente eccomi al primo piano. La mia macchinetta l’ho portata per: fotografare l’allestimento del museo, fotografare le viste del museo, prendere nota di autori e storie, utilizzare la memoria visiva per le idee future. Mi fermo: sono circondata da luci blu, occhi sui telefoni, braccia allungate in un tripudio di selfie o di Instagram stories che documentano l’effettiva presenza del visitatore al museo.

“Sono al MoMa”: se non lo dimostro, ci sono veramente stato?

A quel punto il mio interesse per gli altri scatta come una molla. Mi interessano le persone, quello che fanno, sono uno spettacolo. Oggi fotograferò loro. Da qui, passo le mie successive due settimane a fotografarle, nei musei e fuori, tutte prese nel fare le stesse foto, dallo stesso punto di vista. New York per loro è il Rockfeller Center, l’Empire, il Central Park. Times Square! Una pausa pubblicitaria nel cuore della città, la città idealizzata per eccellenza, nota in tutto il mondo.

Mi chiedo più e più volte quanto possa essere forte uno stereotipo, quanto possa essere forte la consacrazione di uno skyline, e quella dell’arte.

Perché la calca su un Van Gogh e non su un Modigliani? Perché un selfie con Matisse? Perché contemplare qualcosa senza guardarla? Timbriamo un cartellino dell’arte, in un tour confuso delle città, per dire: questo l’ho visto. E l’ho visto davvero, poi? Hai pagato anche il biglietto per dichiarare il tuo status, nel vivere un’arte a consumo. L’arte è come l’ultima Fendi fresca di passerella da avere? Ci stiamo vestendo di qualcosa che non ci interessa comprendere? A che ci serve poi questa arte?».

Potremmo distinguere il comportamento del fruitore di oggi in: realmente interessato, quindi impegnato e documentato; visitatore giunto al museo perché influenzato dalla comunicazione che ha reso popolare il contenuto artistico (e più in generale popolare l’arte oggi); visitatore social.

Da una parte la comunicazione e i social hanno stravolto positivamente le visite nei musei, dall’altra ci si chiede quanto questo pellegrinaggio porti a uno scambio di contenuti, a un arricchimento culturale piuttosto che a un impoverimento.

È giusto che la prima azione che si svolga all’interno di un museo sia tirare fuori il telefono prima ancora di vedere l’opera che si sta per contemplare? È  giusto, a monte di tutto questo, fotografare un’opera?

Quella che prima era riverenza quasi sacra per l’arte, quella sensazione epidermica che ora si prova forse solo quando si entra in una chiesa, si è azzerata attraverso un filtro Instagram. Non si ha più imbarazzo nei confronti di un’opera, la si conosce grazie alla comunicazione: l’arte è entrata nel nostro quotidiano in maniera sovrabbondante. La conosciamo, ci scattiamo dei selfie con lei.

Il sistema dell’arte lo sa, crea mostre sempre più instagrammabili, percorsi studiati per essere fotografati, condivisi, diffusi. Programmazioni che catturano sempre più nuovi visitatori, utenti che fino a qualche anno fa non si avvicinavano a un museo. Allestimenti effimeri, privi di contenuto o pieni di un contenuto tutto da immaginare, sempre più realizzabili con poco, sempre più realizzabili in generale, ci bombardano con appuntamenti di arte quotidiani dove non possiamo mancare, magari facendo aperitivo.

Stiamo vivendo l’arte in maniera inedita? La stiamo facendo a brandelli o ricodificando?

Indagano (anche) questo le fotografie di Alessio Hong, che alla mostra di CattelanThe Artist is Present” di Shanghai ha documentato il comportamento dei visitatori, esasperato dal percorso della mostra stesso. Una strategia voluta dal brillante artista, per rendere spettacolo della mostra il visitatore stesso? Sicuramente una riflessione interessante che sposta su un livello inesplorato l’esperienza tra autore-opera-fruitore.

In un’epoca di condivisione istantanea, il futuro della fruizione artistica cambia assetto. Siamo sempre più abituati a visualizzare le opere sui social, il nostro gusto è cambiato nel tempo e si è riversato nell’estetica, nelle mode, negli arredi, nei riferimenti culturali, nelle pagine preferite che seguiamo scrollando flussi di input artistici continui. Il fruitore medio si è fatto più “esperto”, il suo gusto più allenato, se non raffinato, dopo aver consumato tutta quest’arte. Ma lo ha subito in maniera passiva? E questo sta portando a una produzione artistica più elevata? Una produzione che, tra l’altro, si affianca ad un prodotto spesso personale, sovrabbondante e di scarso contenuto. Un periodo storico catalizzato dalle immagini, soprattutto dalle immagini non permanenti e da quelle personali.

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Foto di Alessio Hong in occasione della mostra “The Artist is Present” di Maurizio Cattelan a Shanghai

Alla domanda di Marco Mascianga sulla democrazia fotografica di questa epoca in un’intervista de Il Sole24Ore, Steve McCurry risponde: «Credo che sia una moda passeggera e che non ci sia nulla di male a divertirsi un po’ facendosi delle foto con il telefonino. Credo anche che documentare le nostre vite abbia un grande valore e che non ci siano molte cose più preziose delle immagini della nostra famiglia e dei nostri amici. La vita è breve: se farsi un selfie davanti alle piramidi rende qualcuno felice, chi sono io per giudicarlo?».