La prossime uscite al cinema targate Disney non prevedono la produzione di storie originali, bensì una densa lista di remake di successi del passato.

Il primo remake Disney fu la versione de La carica dei 101 con Glenn Close, uscito nel 1998, ma rimase un caso isolato fino al 2010, quando Tim Burton realizzò la sua versione di Alice in Wonderland, film che sembra aver avviato questa “operazione nostalgia”. Dopo questo, infatti, sono arrivati Maleficent, Cenerentola, Il libro della giungla, La bella e la bestia. Uno all’anno, dal 2014 al 2017, mentre il 2018 ha visto l’uscita nelle sale di Mary Poppins. Ma è nei prossimi anni che avrà luogo un’intensificazione di questo processo, solo tra il 2019 e il 2021 sono previsti Dumbo, Il re leone, Aladdin, Mulan, Lilo e Stitch, La Sirenetta, Peter Pan, Pinocchio, La spada nella roccia, Biancaneve, Lilli e il vagabondo, Taron e la pentola magica, spin off dedicati a Trilli di Peter Pan e a Crudelia De Mon, dopodichè la situazione diventerà sempre più intricata, andando ad aggiungere altri sequel all’ondata di nuove uscite Disney; ci saranno molto probabilmente, infatti, i secondi capitoli di Maleficent e Il libro della giungla.

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Questa corsa al remake ha una portata per la quale è inevitabile che si sviluppi una riflessione sulla piega presa dalla produzione cinematografica; se in campi esterni ai film di animazione questa pratica è meno diffusa, anche se non si è evitato di rispolverare saghe trentennali come quella di Rocky (Creed e Creed 2) e Star Wars (sempre per mano di Disney) in nome dei risultati al box office, per ciò che riguarda i cartoni animati si assiste ad una programmazione che, praticamente, non propone altro.

C’è apparentemente una motivazione principale che muove questa deriva: la trasposizione da animazione classica a live action, il nuovo medium diventa quindi giustificazione per riprendere storie del passato e portarle sul grande schermo in una veste nuova.

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La domanda che sorge spontanea, però, è se decidere a priori la forma e poi adattarci un contenuto che, guardacaso, ci permetterebbe anche di sbancare il botteghino (chi non si commuoverà nel vedere Dumbo coccolato dalla madre imprigionata in un circo, in una restituzione visiva ancora più realistica?), sia la scelta migliore per la realizzazione di un prodotto cinematografico (e artistico in generale), oppure se non sarebbe il caso di mantenere un iter per cui si decide cosa si vuole dire e poi su di questo si plasma una forma, uno stile, un modus operandi che valorizzi il tutto?
Non che non sia mai esistito chi, soprattutto in campo cinematografico, abbia portato avanti una sperimentazione prettamente visiva, si pensi a Carmelo Bene o a Jean-Luc Godard (che mi perdonino per averli citati in un articolo sui remake firmati Disney), ma si tratta di operazioni con una struttura concettuale a sostegno della sovrastruttura estetica, si parla di situazioni totalmente diverse e infinitamente distanti da quelle odierne, che vengono citate solo per instillare il dubbio se non si stia rischiando di scambiare quella che è esclusivamente e palesemente una operazione commerciale per una ricerca sul linguaggio cinematografico.

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Di fronte a questa ondata di remake Disney non sarebbe il caso che lo spettatore si chieda cosa gli si sta proponendo? Perché tutta questa operazione nostalgia non può essere definita in altro modo se non come un infilare le mani nei portafogli degli spettatori ingolositi dalla nuova tecnologia, dando in cambio tanto fumo e niente arrosto. Non c’è neanche da dire che sarebbe più interessante esplorare le possibilità di questa nuova freccia nell’arco del linguaggio della settima arte con storie nuove, lavorando a un connubio forma-contenuto più stimolante, una simile quantità di prodotti pensati dalla Disney palesa totalmente l’intento puramente economico della faccenda.

Ovviamente il lato economico, soprattutto quando si applicano le dinamiche dell’industra al mondo dell’arte, va valutato e gli va riconosciuta la sua importanza, ma non va avallato questo processo per cui, in nome del denaro, viene messa completamente da parte qualsiasi velleità o voglia di ricerca artistica. Ora sarebbe quantomeno ingenuo pensare che si tratti di un processo che inizia oggi con i remake Disney e che non sia già frequente nella produzione cinematografica hollywoodiana, semplicemente, però, si rimane spiazzati dal fatto che non era mai stato fatto in maniera così esageratamente sfacciata.

Se fosse possibile applicare il dantesco non ragioniam di lor, ma guarda e passa la soluzione sarebbe a portata di mano, il problema principale è però che questa dinamica rischia di rendere operazioni di remake/reboot/sequel/prequel/spinoff sempre più normali e accettabili ai nostri occhi, facendo sì che gli sforzi produttivi vadano sempre di più in questa direzione, diminuendo drasticamente la qualità dei prodotti che arrivano poi nelle sale cinematografiche.

Per questo chi si reca in sala convinto che la ricerca visiva, la sperimentazione, o semplicemente un buon lavoro di regia, fotografia e montaggio, oltre che di recitazione, siano gli elementi in grado di farci apprezzare o meno un film, e, in casi notevoli, di assegnargli un posto di rilievo nella storia dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, non dovrebbe prestare il fianco a questa dinamica esclusivamente industriale, mai artistica, e disertare le proiezioni di questi film.