Marzo. Un giorno prima le scuole sono aperte e le chat delle mamme scorrono come fiumi in piena, il giorno dopo ci sono solo i fiumi ma le scuole sono sprangate. Nel caos dell’emergenza si tenta di portare avanti il diritto allo studio degli studenti e di rispondere con la Didattica a Distanza alla mancanza delle lezioni in classe. La scuola vuole esserci, ma in una forma alla quale il sistema non è affatto pronto. Mancano gli strumenti, manca il tempo, la preparazione, manca un metodo, manca pure la volontà a dire il vero, di alcuni non di tutti.

Il dibattito si sofferma spesso su quegli alcuni, dipingendo gli insegnanti come i soliti scansafatiche da tre mesi di vacanze. Nelle pieghe di queste scemenze, si è nascosto invece l’impegno di molti insegnanti, soprattutto giovani, che sfidati dall’emergenza, cercano di dare il massimo per rispetto della propria missione e dei propri studenti. A loro va chiesto come funziona questa Didattica, perché a dire il vero, sono gli unici che la stanno sperimentando.

Per il primo mese abbondante c’è stata molta confusione, in assenza di un’indicazione specifica. Durante i primi giorni abbiamo continuato ad assegnare solo compiti – mi racconta Valentina, 34 anni, docente di Inglese in un Liceo di Roma – Ho deciso di attivare Zoom per i miei studenti perché lo avevo provato in un gruppo di teatro. La mia è stata un’iniziativa personale, la piattaforma della scuola è arrivata dopo. Ho ripreso il programma dove l’avevo lasciato, andando più a rilento e faticando a raggiungere tutti gli studenti. Tuttora alcuni sono reticenti a connettersi, poi magari condividono i compiti che assegno. Da parte di molti ho sentito un bisogno di portare avanti una sorta di normalità. Sapere che ci vediamo li rassicura. Che loro hanno qualcosa da fare”.

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Più che di Smart Working, anche in questo caso, si tratta di lavoro casalingo. E neanche della migliore delle annate. Un sistema che costringe a fare il doppio degli sforzi per raggiungere la metà degli obiettivi. “In questo momento siamo sovraesposti – continua Valentina – Gli studenti hanno bisogno di noi, e noi ci siamo. Abbiamo aperto chat di gruppo, condiviso il nostro numero di cellulare, le nostre mail personali. Creando quindi un fiume di comunicazioni. I ragazzi mi scrivono la domenica, il sabato. Anche a mezzanotte. Non c’è più alcun filtro. Poi invece ci sono i docenti che continuano ad assegnare compiti, impossibili da contattare perché una mail non ce l’hanno, o non vogliono condividerla. Ci sono anche quelli che noi abbiamo aiutato a digitalizzarsi, perché volevano fare lezione, ma non sapevano da dove cominciare. Così le disparità che già c’erano si riflettono perfettamente in questa situazione. Per me è faticoso, ma non potevo accettare di sentirmi inutile in questo momento

Valentina Chioccia ha 32 anni e insegna lettere in provincia di Viterbo. Nel suo caso le cose sono ancora più complicate, perché i problemi di connessione sono tanti, per chi vive in campagna, per chi ha difficoltà economiche, uno o più fratelli, un solo cellulare e connessione così e così. “Insegnando su più indirizzi ho una visione verticale dell’insegnamento, ma anche della società. E posso testimoniare che la risposta degli studenti è stata assolutamente ogni oltre aspettativa. Si connetteranno pure mentre fanno colazione e hanno ancora il pigiama, ma ci sono. Sicuramente uno studente del liceo ci tiene alla sua preparazione. E le lezioni possono diventare un momento di evasione. Tantissimi di loro stanno apprezzando questa didattica quasi più di quella in aula.”

Gli insegnanti, che nella nostra società hanno un ruolo chiave, esattamente come quello dei medici, stanno accelerando processi di apprendimento che la scuola avrebbe impiegato anni per mettere a sistema.Ho dovuto ridurre le mie ore per essere presente in tutte le classi, imparare a smanettare in pochissimo tempo e faticare di più per preparare le lezioni, ma il programma rimane quello fissato a settembre. Quello che è cambiato invece è la fruibilità dei contenuti. Preferisco proporre ai miei studenti un lavoro di ricerca: avete tempo, allora approfondite! E nel frattempo io imparo nuovi modi di fare lezione, utilizzo molte immagini, video e podcast. Il mio obiettivo è fare in modo che loro capiscano e per farlo, servono strumenti più interattivi. Sarà per questo che ho accettato questa cosa con molta serenità. Lo considero un anno eccezionale e questa esperienza un arricchimento, anche umano: non posso pensare di essere stata privata di qualcosa. Casa mia adesso è scuola!”

Tiro un sospiro di sollievo. Mi era sembrato che della scuola fossero rimaste solo le macerie. Intanto mi passa sotto il naso il video dell’insegnante di religione di mia nipote Aurora, 5 anni. La maestra le racconta una parabola con dei burattini. Per i bimbi più piccoli la scuola è lontana, ma non per questo del tutto latitante.

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Grazie ad Eliana Violi, psicologa specializzata in problemi dell’apprendimento, capisco meglio cosa sta succedendo. “Come ogni altro contesto organizzativo – mi dice al telefono – la scuola ha senso di esistere se si riconosce il sistema di relazioni che la compongono, se si è in grado di rispondere alla domanda: “che cosa stiamo facendo insieme?”. L’apprendimento non è un prodotto che si acquisisce individualmente. “lo studente che impara” non esiste. Apprendere è un processo che si realizza dentro a dei rapporti: la relazione docente-allievi, ma anche allievi-famiglie e allievi-allievi. La routine che scandisce la vita scolastica, gli spazi fisici dell’aula, i momenti di incontro informale, sono oggetti simbolici. Il venir meno di questi oggetti ha disorientato docenti, studenti e famiglie, e messo la scuola di fronte alla necessità di ripensare a che cosa si fa insieme, dove lo si fa e come.”

Eliana opera in un servizio scuola-famiglia, dove alcuni professionisti si affiancano a dei ragazzi con disturbi dell’apprendimento o diagnosi di ritardo cognitivo. Già in una situazione normale, lo specialista che viene chiamato in queste circostanze a confrontarsi con le ansie delle famiglie, che esprimono una richiesta di “riabilitare” i propri figli. “Non c’è più il momento in cui i bambini si separano dalla famiglia, quello in cui il genitore molla il controllo sul figlio. Mamma, papà e insegnante ora stanno nello stesso luogo, hanno anche il compito di gestire i dispositivi online, se si tratta di bambini. In questo modo le famiglie si sentono chiamate a garantire il diritto all’apprendimento dei figli, senza percepire una presa in carico da parte della scuola di quello che stanno facendo. Perciò i genitori comunicano spesso un senso di angoscia, legato a un sentimento di abbandono, alla mancanza di certezze rispetto al futuro dei propri figli, soprattutto quelli con problemi, per cui la didattica a distanza è poco o per nulla praticabile”

Emerge più forte quel senso di fallimento che grava sulla scuola. Un fallimento che però faceva già parte del sistema. Se visto in modo costruttivo, potrebbe lasciare il posto a nuove soluzioni. “In questo momento possiamo creare un altro modo di lavorare, ad esempio, impostandolo sulla trasparenza. Al ragazzo di 16 anni che sto seguendo, per prima cosa ho chiesto: come stai? Questo ha fatto in modo che le nostre barriere e le sue resistenze venissero meno. Il fatto di non potersi vedere non è tanto un aspetto negativo o positivo in sé, ma ci costringe a riorganizzare la relazione. Possiamo reinventare dei modi per apprendere. Utilizzare degli strumenti creativi, sfruttare i dispositivi per ristrutturare dinamiche scontate, fare delle valutazioni di gruppo, usare strumenti visivi e interattivi come mappe e grafici per esporre i contenuti. Molti docenti sono spaventati dall’idea di perdere autorevolezza e controllo. Non c’è più la cattedra, non c’è più l’aula, ora siamo tutti sullo stesso piano. E’ un’ottima occasione per superare un modello didattico basato sulla ripetizione, e non sull’elaborazione dei contenuti, sull’idea che questi debbano essere presentati in modo mortificante, che l’apprendimento deve essere una cosa noiosa, che si studia leggendo, non creando. Questo modello era già in crisi prima, è solo il momento di prenderne davvero coscienza.”

Ripenso a Valentina che ha tradotto i suoi listening d’inglese in audio su WhatsApp, oppure agli studenti che apprezzano tantissimo i podcast perché hanno la possibilità di ascoltare quando si sentono maggiormente concentrati. Ripenso poi al mondo fuori, che è già così, pieno di dispositivi, di lezioni online, di docenze telematiche, di relazioni che si creano digitalmente, di attestati che si prendono per email, di lezioni che si fanno sugli schermi, di presentazioni fatte di infografiche e mappe 3d, di video curriculum. E mi sembra che la scuola non fosse tanto inadatta ad affrontare il Coronavirus, ma ad affrontare piuttosto il futuro dei propri studenti.