Stephanie Gengotti è una fotografa che ama raccontare storie e non può fare a meno di lasciarsi trasportare emotivamente dal suo lavoro.

Abbiamo intervistato Stephanie Gengotti per farci raccontare il suo rapporto con la fotografia.

Come ti sei avvicinata alla fotografia e a che età?

Ho iniziato tardi, vero i 29 anni. Dopo aver lavorato come interprete alla Rai, sono diventata ufficio stampa di un centro culturale internazionale a Roma. Vengo da una famiglia di viaggiatori, entrambi i miei genitori erano assistenti di volo e con loro mi spostavo spesso in altri continenti anche per lunghi periodi. Una passione, il viaggio, che ho coltivato anche da sola; mi piaceva l’idea di incontrare persone nuove, vivere altre realtà, dormire in posti non battuti dalle mappe turistiche, e tutto questo ha fortemente contribuito alla mia formazione espressiva. Ma la vera ‘Intuizione’ arrivò quando persi mia sorella Clarisse: nei mesi successivi ero in cerca di risposte e di me stessa. Iniziai a viaggiare ancora di più, fino a quando un giorno, in Sudafrica, camminando lungo una spiaggia con la mia inseparabile macchina fotografica, che utilizzavo inconsapevolmente per immortalare semplici ricordi, non restai incantata dall’immagine in controluce di un uomo, e fu proprio quello scatto a cambiare radicalmente la prospettiva delle cose, una vera e propria rivelazione; prima di quell’attimo non avevo realizzato quanto mi piacesse fotografare. Tante sono le cose che nella mia vita avvengono così… rimango ‘folgorata’, e dalla semplice idea passo immediatamente all’azione.

 

Come mai hai deciso di esprimerti attraverso il reportage?

Grazie al lavoro come ufficio stampa, mi fu commissionato l’incarico di rintracciare Safiya, una donna nigeriana condannata alla lapidazione per adulterio, ma salva per merito di una petizione internazionale; una storia che fece molto clamore all’epoca. Riuscii a portarla a Roma dopo tre mesi di lavoro costante con l’ambasciata nigeriana, al suo arrivo invitai la stampa internazionale che aveva seguito la vicenda, in quell’occasione scattai anch’io la mia foto che inviai alla Sperling & Kupfer, la casa editrice che pubblicò la sua biografia. La foto uscì in 28 paesi come copertina del libro. Furono gli stessi anni in cui conobbi il Capitano Ultimo: stavano

girando un film su di lui, e grazie a lui iniziai a lavorare come fotografa di scena. Un’esperienza, quella del cinema, durata poco, ma che sul set mi ha permesso di conoscere un bambino rom e la sua famiglia e di essere invitata nel loro campo, dove ho passato i 4 anni successivi per fotografare una comunità a cui sono ancora molto legata. Mi sono avvicinata alla loro cultura ed è stata una palestra di vita immensa, perché è una comunità che amo profondamente, ma non è uno spazio semplice; bisogna saperci entrare, bisogna saperci stare, e solo alla fine fotografare. Il campo rom fu il mio primo vero approccio al Reportage. Era come varcare la frontiera di un altro paese, ho cercato e trovato la reciproca empatia, aprendo la strada verso il ‘sentirmi una di loro’. Un’esperienza che mi ha insegnato molto, perché è così che lavoro anche oggi: passo gran parte del tempo con la gente che fotografo, con le loro storie, ne condivido gli spazi, la vita.

 

Quanto conta la preparazione al progetto, quali sono le fasi della progettazione di un tuo reportage?

Funziona un po’ come l’innamoramento, quando scelgo di raccontare una storia è perché ne sono follemente conquistata, altrimenti non funzionerebbe. E’ importante l’emozione mentre scatto e l’empatia con i miei soggetti, di solito poi neanche cerco molto, le cose mi trovano, arrivano ed io le riconosco. Sono molto legata alla sfera emotiva, intuitiva; ma esiste in me anche una parte razionale, ciò che serve per l’esatta organizzazione di tutto il lavoro, che mi aiuta nel metodo. Una volta incontrata la storia giusta subentra l’iniziale timidezza dovuta alla paura di non essere accettata; è una cosa che mi accompagna da sempre; ma la supero, perché è così forte in me il desiderio di essere conquistata e conquistare, ed è l’unico modo che mi permette di fotografare raccontando davvero situazioni che altrimenti le sovrastrutture della distanza emotiva non potrebbero rivelare.

 

Qual è il progetto al quale sei più affezionata?

Adesso sto lavorando sul Circo, ora tutto il mio cuore è lì, dove sento di aver fatto un passaggio evolutivo sia dal punto di vista dell’approccio che del linguaggio; lavorare con i soggetti ricostruendo insieme a loro situazioni quotidiane, una modalità che chiamo ‘docu-staged photography’. L’attenta osservazione del quotidiano mi permette di ricomporre contesti veritieri proprio sul set naturale del loro mondo. C’è un grande lavoro di squadra, e mi coinvolge il loro impegno nel partecipare alla sfida. Il tutto immerso da poesia e bellezza, dall’onirica visione di un Circo talmente diverso per dimensioni e mentalità rispetto alle smisurate cattedrali del circo tradizionale alla Moira Orfei: sono piccole famiglie che girano l’Europa, nella dimensione raccolta dei loro carri, nell’atmosfera di un tempo fermo, incurante di quest’epoca schizofrenica e obbligatoriamente tecnologica. Non esiste lo sfruttamento degli animali esotici, non ci sono tigri, scimmie, elefanti, ma l’uomo di fronte al suo pubblico; ed è quanto di più bello possa desiderare una persona come me, profondamente legata al rispetto del regno animale. Per quanto riguarda invece la scelta di un progetto passato, trovo difficile premiarne uno a discapito degli altri; lavoro molto su ogni storia, e tutte rappresentano un pezzo della mia vita.

 

Come capisci che il tuo lavoro su un progetto è finito?

Non potrei mai darmi tempi prestabiliti; ad esempio con il Circo non è ancora finita e ci lavoro da anni. Continuo a scattare fino a quando avverto la forte emozione che mi spinge a proseguire. C’è un momento, non calcolato, qualcosa che ti dice che è arrivato il tuo ultimo scatto: è quando capisci di aver approfondito, compreso. E come l’innamoramento è tanto repentino, lo è anche la sua conclusione, ma con un pizzico di lentezza in più.

 

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Da "San Basilio" © Stephanie Gengotti
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Da "San Basilio" © Stephanie Gengotti
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Da "San Basilio" © Stephanie Gengotti
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Da "Along the river" © Stephanie Gengotti
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Da "Along the river" © Stephanie Gengotti
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Da "Along the river" © Stephanie Gengotti
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Da "9 months" © Stephanie Gengotti
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Da "9 months" © Stephanie Gengotti
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Da "9 months" © Stephanie Gengotti
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Da " Circus love - chapter 2" © Stephanie Gengotti
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Da " Circus love - chapter 2" © Stephanie Gengotti
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Da " Circus love - chapter 2" © Stephanie Gengotti