Fabio Mollo – Il viaggio e il successo da Reggio Calabria a Roma, passando per la metamorforsi di Londra e un’irrefrenabile passione per i marciapiedi ben fatti.

Il 9 Marzo nelle sale di tutto il paese è uscito Il Padre d’Italia scritto e diretto da Fabio Mollo con Isabella Ragonese e Luca Marinelli. Abbiamo incontrato Fabio Mollo e gli abbiamo chiesto di ispirarci raccontandoci com’è la sua vita ora al suo secondo film in uscita, cosa pensa del suo – e del nostro- futuro e cosa significa essere un regista della nostra generazione. Ne è uscito fuori un ritratto di un’Italia viva, nuova e più curiosa che mai.

Il pubblico ti ha conosciuto con “Il Sud è Niente”; il 9 marzo esce in tutta Italia il tuo secondo film “Il Padre d’Italia”, ce lo racconti?

Questo è il mio secondo film, ma dicono anche l’ultimo…scherzo!

“Il Padre d’Italia” è un film che per me era molto importante fare. Lo avevo già scritto da tempo, però, per me, dopo Il Sud è Niente e con tutto quello che ne è seguito, questa volta era importante montarlo subito e molto velocemente. Volevo contribuire al racconto della mia generazione e provare a farlo declinandolo nel passaggio dall’essere figli all’essere genitori. L’idea era raccontare questo tema da due punti di vista: quello di una donna che non è sicura di essere madre e quello di un omosessuale che, in quanto tale, crede sia contro natura essere padre. Sentivo che questi due temi fossero centrali nel dibattito italiano, o meglio, nell’assenza di questi temi nel dibattito italiano.

Perché siamo in un paese in cui si celebra un Fertility Day per cui sembra che la donna sia quasi obbligata a dover diventare madre e poi, però, non si pensa a come supportare la donna o l’uomo quando diventano genitori. Professionalmente parlando, ad esempio, tirandoli fuori da precariato. E anche perché siamo in un’Italia in cui non si legifera sull’omogenitorialità; insomma, pensavo fosse importante provare a raccontare queste cose. Non volevamo fare un film di denuncia, volevamo fare un film molto umano.

In quanto tempo avete costruito la storia?

Il progetto lo avevo già scritto al tempo del mio primo film. Però, fare un film con queste tematiche nel 2011, sarebbe stato un suicidio, nessuno me lo avrebbe fatto fare. Ma l’attuale produttrice si innamorò del soggetto e in circa due anni tra sceneggiatura e lavoro con Luca (Marinelli) e Isabella (Ragonese) lo abbiamo costruito. Io ero innamorato follemente della coppia e ho lottato per averli: ho visto come erano e come lavoravano assieme e penso che nessuno avrebbe potuto interpretare Paolo e Mia come lo hanno fatto loro.

Abbiamo girato “Il Padre d’Italia” in solo 5 settimane, compresi i viaggi. Alcune volte viaggiavamo mentre giravamo: loro due sul furgone e noi seguendoli con la telecamera anche nei passaggi tra una location e l’altra. A volte quasi non si capiva il confine tra il girato e il non girato… era diventato una sorta di instant-movie!

Com’è essere un giovane regista in Italia? – negoziamo con Fabio la dicitura “giovane” cercando di non rendere il termine riduttivo.

Sono molto contento d’essere tornato in Italia e credo molto nel cinema italiano: ci credevo al mio ritorno dalla vita all’estero quando iniziai la formazione al Centro Sperimentale e ci credo molto ancora oggi.

Sono molto contento di sentire che c’è un cambio generazionale molto forte in atto. Basta pensare ai David di Donatello di quest’anno in cui per la prima volta, in lizza per il miglior film, ci sono tutti registi della nuova generazione, la mia generazione! Mi sembra che questo sia stato in qualche modo l’anno spartiacque in cui finalmente abbiamo conquistato degli spazi. La cosa mi rende ancora più felice perché parliamo di film che non sono solo italiani, ma sono soprattutto molto europei. E questo secondo me è un ottimo segnale.

Io personalmente, ogni giorno, sento di dover provare qualcosa; questo perché mi viene rimarcato spesso -anche sul set- di essere “giovane”, nonostante io non lo sia. Ed è strano pensare che nell’industria cinematografica italiana sono ancora considerato “un giovane”.

Pensi che in Italia ci sia il mito dell’anzianità come sinonimo di autorevolezza per default?

 No, piuttosto credo che forse la generazione precedente alla nostra non sia pronta a lasciare degli spazi, quasi volesse tenersi ancora quegli spazi per se e quindi fatichi a convalidare chi è più giovane. Nel momento in cui ti si dice che sei giovane, non s’intende “sei un mio pari”; ti si sta dicendo, invece, che sei “un emergente”, che sei “un giovane”. E purtroppo questa cosa succede spesso.

Quanto ha inciso la scelta di andare a studiare a Londra, diciottenne, sulla persona che sei ora? Cosa diresti ai ragazzi che si chiedono se partire o rimanere? Cosa ti è rimasto di quella esperienza?

Cosa mi è rimasto di quella esperienza? Prima di tutto un tatuaggio che non mi piace molto sull’anca destra (scoppiando a ridere) e che ho fatto un giorno, un po’ ubriaco, a Camdem quando avevo 18 anni!

Diciamo che trovarmi così giovane da un giorno all’altro da Reggio Calabria a Londra – per di più in un momento in cui non c’era la diffusione che c’è ora di Internet e di tutti i mezzi di comunicazione – è stato un enorme cambiamento. Mi ricordo che ho sentito la fronte che si allargava e gli occhi che diventavano più grandi. Ho sentito una metamorfosi fisica che credo poi sia diventata parte di me: il viaggio in se è un’esperienza che ti apre, ti confronta, ti stimola e in me quella cosa è rimasta. Ancora oggi, sento che qualsiasi cosa io faccia professionalmente nasce prima di tutto da una curiosità verso il mondo, per la realtà e per le cose che poi scelgo di raccontare e filmare.

A Londra, da solo e cosi giovane: c’è mai stato un momento in cui hai pensato “non ce la faccio”?

 Ogni giorno. Pensa: era il ’98, c’era ancora la lira e la sterlina era alle stelle. Io vivevo in zona 5 nella East London, lavoravo per mantenermi e l’inglese l’ho imparato direttamente lì. Non c’erano, come ora, i Social: una volta che partivi eri davvero via. Dopo un po’ vengono su le nostalgie, il sentirti in un altro mondo, il sentirti non compreso, il non poterti esprimere appieno. Quindi, in realtà tutti i giorni avevo la sensazione di non potercela fare…ed all’università ancor di più!

Però c’era questa cosa: nei momenti in cui pensavo di non farcela, prendevo la metro ed andavo in centro. Non avevo soldi, quindi non potevo fare molto; pero mi bastava una passeggiata di due o tre ore e quella cosa mi energizzava. Quella gente, quel mondo, il fatto di esplorare una strada sconosciuta, tutte quelle facce, tutte quelle storie che venivano da diversi mondi: era come capire di nuovo il perché stavo li, perché Londra per me era quello. Era un concetto non una città.

Ora vivi a Roma: cosa ami e cosa cambieresti della città?

Io Roma la definisco come una bella fidanzata o un bel fidanzato, che ti dà cinque schiaffi, ti maltratta, pero poi ti dà un bacio, e quel bacio è cosi bello che tu ci vivi, ci caschi…e ci stai ancora insieme.

Per me Roma è un po’ quello; nel senso che è una città che ti maltratta però, poi, hai quel momento, quel tramonto, quella dimensione, quella proiezione che fanno d’estate per strada… quei momenti di totale romanità che ti fanno innamorare e ti conciliano con tutto. Io poi sto al Pigneto che è una dimensione che mi piace molto: è un quartiere che sento molto vicino all’East London perché misto, approcciabile , popolare ma contaminato. Molti della mia generazione nel cinema vivono qui. Diciamo che mi piace l’idea di vivere il quartiere.

Cosa non ti piace di Roma?

Non mi piace che la città non sia sempre vivibile. Io sono una persona che si muove molto con i mezzi e ricordo che quando ero a Londra si potevano fare tante cose in una sola giornata. Qui mi manca esattamente quello. A Roma manca la progettualità, si ha la sensazione costante di vivere alla giornata. Io stesso vivo in un quartiere nel quale ci sono voluti venti anni per costruire una metro che ancora non è finita. Ecco, ad esempio vorrei i marciapiedi! Quella è una cosa che mi manca! Ero a Milano qualche settimana fa: ho visto un marciapiede e mi sono emozionato! (Ride in quel suo modo contagioso)

Dove vivresti se non qui?

A Toronto, che ho amato per il Festival del Cinema del quale sono stato ospite. Anche il mio prossimo film è molto legato alla città di Toronto… Oppure vivrei in un paesino sperduto in Abruzzo, in mezzo ad un bosco. L’importante è che ci sia un pub vicino per bere della birra, poi il resto non serve! Io più che altro vivrei con una valigia sempre pronta e mi sposterei ogni volta che serve. Quello non mi spaventa.

C’è una frase ne “Il padre d’Italia” che è già diventata un piccolo tormentone ed io la giro a te : “E tu Fabio un figlio lo vuoi o no?” – Il Film parla in qualche modo anche di te?

Beh in realtà la mia risposta non è la stessa del film. Io un figlio lo voglio. È più il capire quando sarò pronto ad averlo. Una cosa è il desiderio, l’altra è sentirsi realmente pronto per farlo. Quindi sul desiderio ti dico di si… sull’esser pronto ancora non lo so!

Ti spaventa il momento storico per mettere al mondo un bambino?

Si, però nel risponderti ti svelo anche un po’ il finale del film, perché Paolo -il personaggio di Luca Marinelli- parla proprio di questa paura e realizza che qualunque genitore, nel momento in cui mette al mondo un figlio, ha paura per il proprio figlio. Ed è forse proprio questa la cosa che ci rende tutti uguali, genitori etero e genitori omosessuali.

Forse è più la legge che mi fa paura in un paese che fatica a riconoscere due padri o due madri come genitori; ma quello fa paura a me come fa paura il Fertility Day alla donna che si chiede perché debba scegliere tra carriera e maternità. Perche una cosa dovrebbe escludere l’altra?

Per finire ti chiedo un consiglio da dare alle ragazze e ai ragazzi che guardano a te e che si affacciano ora alla carriera cinematografica.

Io insegno anche cinematografia alla RUFA, quindi mi pongo questa domanda tante volte. E quando ho gli studenti davanti mi chiedo, non solo cosa sto insegnando, ma anche quale messaggio gli sto dando.

Non sono arrivato ad una risposta, se devo essere sincero. Per ora cerco di capire per ogni studente che ho davanti, qual è veramente il percorso da suggerire o che possa valorizzarlo. In generale, la cosa che vorrei che passasse è che il mondo del Cinema è un mondo che richiede molto lavoro e molto sacrificio. Bisogna arrotolarsi le maniche e, oggi come oggi, è un lavoro che si fa pensando che domani si potrebbe non farlo più.

Ai miei studenti ho fatto vedere molto di Xavier Dolan perché penso che le nuove generazioni abbiamo sicuramente una marcia in più: hanno a disposizione mezzi tecnici più facili da ottenere ed hanno nuovi linguaggi da sperimentare. I ventenni di oggi hanno la libertà di prendere in mano una telecamera digitale e poter diventare ì registi più forti del mondo. Perché la forza, lo slancio e la creatività che hanno sono doni bellissimi.