Spesso, la sera, mi capita di chiedermi se succeda anche ad altri di sentirsi come un abito fallato tra uno stock di capi tutti identici, tutti bellissimi. Su una rella di giacche perfette e abbottonate io sono quella con la manica più corta.

Un difetto da niente, direte, per i più introspettivi magari sarà anche un incredibile tratto distintivo; ma se devo sentir freddo ad un polso si e ad uno no, c’è chiaramente qualcosa che non va nella mia giacca.

Per uno spiccato perbenismo ora dovrei augurarmi che non sia così anche per voi. Dovrei farmi carico di tutti gli assurdi problemi del mondo pressati in uno zaino solo mio; ma ho le spalle troppo piccole per sollevare cose così grandi e poi, sinceramente, non mi va nemmeno di farlo.

Spero invece che vi accada, vi sia accaduto e continui giornalmente ad accadervi. D’altronde chi diceva mal comune mezzo gaudio era un egoista che aveva solo paura d’esser solo. E a me la solitudine fa schifo, e forse sono anche un po’ egoista.

Ho letto da qualche parte, nelle mie intense maratone nell’internet più becero, che ci vogliono, più o meno, 66 giorni per creare un’abitudine. Mi è sembrato un dato estremamente accurato, sessantasei, un numero troppo definito per non essere altrettanto corretto.

Quindi ci ho creduto.

Ho poi pensato che, in effetti, nell’ultimo periodo mi sono abituata ad un numero esageratamente grande di novità. Ho imparato a respirare la mia stessa aria in un pezzo di stoffa tenuto dietro le orecchie; al metro di distanza, con rapidi calcoli matematici infondati per cui se allungo un braccio e ancora non ti tocco potrei star sicura; mi abituerò ai pranzi fuori, finché non riavremo le cene. Un banalissimo e condivisibile spirito d’adattamento, non ci si allungherà il collo per prendere la foglia più in alto, ma stiamo assecondando i cambiamenti.

Leggi anche: Il mio 2020 è iniziato ordinando la pizza a casa

Sicuramente, io ho un bagaglio di ansia pregressa che non potrei mai addossare alla pandemia, al lockdown e a tutta questa insana capitolazione della socialità. La mia ansia è cosa vecchia ma, diciamo, che se avessi dovuto dipingere uno scenario in cui affrontarla, non avrei di certo scelto questo. Confesso che l’essere perennemente in preda alle palpitazioni non mi stia rendendo le cose più facili, anzi, è come se qualcuno mettesse tutti i bastoni del mondo tra le mie ridicole ruote.

La paura è però condivisa ormai, non è più solo mia, non che io ne sia mai stata gelosa, anzi. Come si diceva prima, mal comune mezzo gaudio. Avevo già accennato al mio egoismo?

Dunque, c’è un senso crescente d’incertezza e sbandamento generale che ci si può solo chiedere dove si andrà a finire. Cerco di distogliere il pensiero, di non essere esagerata, di non perdermi. Mi convinco di non essere la donna nel quadro “L’ansia” di Munch con quel cielo rosso che la schiaccia e quegli occhi così stanchi che sembrano solo dire basta.

Eppure siamo qui, tutti, ad assecondare l’andamento altalenante di una pandemia che ci sgretola quei castelli in aria che abbiamo sempre costruito. Noi a rimettere una sull’altra le carte, stringendo i denti, fino a che un soffio quasi impercettibile non torna a far crollare quella torre sbilenca. Un mucchio che, non si sa per quale miracolo della gravità, per qualche secondo, aveva resistito. E’ la vita: un traballante ed instabile castello di carte da gioco, una smania insaziabile di riuscire a far reggere le cose, anche se non è questo il loro scopo.

Certe cose non si reggono e basta, almeno non per più di due piani. Non dico che si debba rinunciare al terzo piano e ai grandi progetti. Non abbandonate neanche i sogni di stabili grattacieli ben piantati a terra, quelli che a cercare di buttarli giù è solo un’inutile fatica. No, dico solo che le carte sparse, a volte, vanno bene lo stesso, che lasciare la presa si può, tremare ed aver paura va bene. Si deve esser forti, ma anche deboli si può, ve lo dico io.

Nessuno ci ha insegnato a vivere un lockdown, neanche ad immaginarcelo. Non c’è un modo giusto o sbagliato per farlo, siamo i primi, possiamo solo andare a braccio. Quando si ha paura ci si sente soli, strani, sbagliati: una giacca con una manica più corta tra abiti identici, tutti bellissimi. Lo so. La paura è però l’inganno più grande che c’è, quindi respirate, continuate a camminare al vostro passo, cadete e rialzatevi quante volte potete. Perdete il senno e ritrovatelo, urlate e poi state in silenzio, state male ma poi anche bene.

Ci siamo tutti dentro, anche se è meglio stare distanti. Guardateli, ogni tanto, quei milioni di occhi che escono dalle mascherine. Abbiamo tutti paura, appesi alla rella di giacche tutte uguali, abbiamo tutti una manica più corta, basta solo tirare su anche l’altra.

Leggi anche: Sono stata prigioniera della mia testa per anni