Letizia Scarpello, in questa profonda intervista, non racconta solo il suo lavoro, ma spinge – in questo caso – il lettore a confrontarsi sulla sua condizione e sulla sua posizione. Come essere umano, fatto di energia, di carne, di spigoli, punti di vista, prospettive, orizzonti, pieni e vuoti. In continua evoluzione.

Il teatro, la danza, lo studio e la ricerca filosofica vengono sintetizzati, nelle opere di Letizia Scarpello, in linee semplici, pure, e in colori che emanano luce ed evocano il cielo o il mare.

Come delle piccole preghiere mosse dal vento che si perdono nell’azzurro della volta celeste.

Colta ed elegante, Letizia Scarpello sa unire con grazia queste doti all’interno dei suoi lavori, che posiziona, alle volte, discretamente nello spazio, quasi a fonderli con esso, altre volte, invece, con un gesto più concreto per far risaltare alcune caratteristiche dell’uno e dell’altro elemento. E di chi lo abita. Le sue parole sono sempre calibrate, giuste. Il suo pensiero è calmo e fluido, i suoi sensi sempre pronti ad accogliere. È bello parlare con Letizia, perché si impara molto. Anche nel silenzio.

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Il tuo portfolio comincia con un lavoro realizzato per la tua terra d’origine (Diserta, 2016, Spoltore – Pescara) e finisce con Idiotes (2020) allestito nel borgo abruzzese di Pereto. Ho letto questa apertura e chiusura come un cerchio: una traccia che da A muove verso A e dentro la quale si compiono e prendono forma pensieri e azioni, per poi rigenerarsi, ma in un altro modo. Con un’altra visione…

Ammetto che non ho pensato a creare un ordine organico all’interno del mio portfolio. Non amo l’idea di dover catalogare la mia ricerca anche riconoscendone la logica funzione. Perciò mi sono limitata a ordinare le immagini secondo la loro cronologia.

Eppure, come hai notato, per chi mi conosce sembra emergere il racconto di un movimento personale, uno spostamento che effettivamente porta dalla mia città di origine verso il nord Italia, per poi tornare verso casa, dove io ad oggi mi trovo. Credo che questo dipenda dal modo in cui ragiono sulle cose che creo. La forma nuova torna sempre alle sue precedenti come parte di un dialogo a più voci. Sono le ragioni dei miei lavori, che mi piace pensare come coetanei che si confrontano e sintetizzano insieme il nuovo passo successivo. In questo caso Idìotes. a casa.

Parliamo di cilindri, un po’ il tuo marchio di fabbrica. Perché sono così speciali?

Il cilindro è una forma geometrica archetipica alla quale possiamo facilmente associare l’immagine della colonna greca nella sua verticale portanza, maestosa, antica e austera. Ma non è questo il motivo per il quale torna spesso nelle mie installazioni. Sei la prima persona che mi chiede esplicitamente “perché il cilindro” e sono molto felice di mostrarti il ragionamento grafico e tautologico da cui nasce.

L’intuito è un punto che proietta la sua intenzione verso fuori. Il suo raggio intenzionale disegna così un movimento circolare, si concretizza in un ragionamento. La ragione, fattasi cerchio si spinge oltre, e nell’impulso di essere si realizza in una nuova forma uguale a se stessa, un altro cerchio. Cerchio dopo cerchio si fa il corpo dell’arte, vita che guarda se stessa, un bellissimo cilindro che espone il suo processo creativo.

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Ai margini è possibile scoprire la verità?

Secondo me, si.

Mi ha colpito molto il testo critico sul tuo lavoro Troppo umano (2018) firmato da Ginevra Bria. In particolare, vorrei riprendere con te due passaggi.

Il primo riguarda la linea di orizzonte dello sguardo che, spesso, nelle tue installazioni a terra, si abbassa. Questa riflessione ha generato in me una sorta di cortocircuito perché, ad esempio, io, quando cerco di immaginare o visualizzare un’idea, istintivamente guardo al cielo.

Il secondo passaggio che vorrei condividere con te è la citazione all’opera di Nietzsche “Umano, troppo umano, un libro per spiriti liberi”, che recita “Le cose non lo sospingono e gli uomini l’hanno lasciato solo, così l’autore può interessarsi a se stesso, come un viandante, costretto a parlare con la propria ombra. Discorrendo con sé, si parla più facilmente di sé.”

Quanto ti ritrovi in questa citazione?

Partendo dalla tua prima osservazione mi piacerebbe riflettere insieme sull’importanza del punto di vista di chi guarda. Se penso che il mio lavoro inizia nel mio occhio, o nella mia mano per scendere fisicamente verso il pavimento e rialzarsi nello sguardo di chi fruisce allora si compie uno slancio che crea tensione emotiva e realizza una piccola commozione, che è ciò a cui miro. Una curva espressiva dal basso verso l’alto. Allo stesso modo se ragiono al contrario e rifletto sull’osservatore e l’inchino al quale è chiamato per guardare la forma che si trova sotto il suo mento, in basso, ottengo quel gesto di umiltà poco cosciente che un’opera d’arte contempla.

Una linea discendente verso uno stato di concentrazione più sensibile.

Parlando invece di Umano, Troppo Umano e della particolare citazione alla quale fai riferimento rispondo con l’interpretazione che io sono abituata a dare alle parole di Nietzsche. E’ un’esortazione al distacco, ad una lucidità superiore mossa dalla conoscenza e senza morale. La chiave di accesso alla libertà dello spirito, molto difficile da attuare ma che provo ad avvicinare nella pratica dell’auto disciplina.

C’è un prima e un dopo l’incontro con la meditazione e lo yoga o la pratica di questa disciplina ha semplicemente ridefinito alcuni concetti e metodi già insiti nel tuo lavoro?

Non proprio. Diciamo che a un certo punto, non molto tempo fa, ho capito quanto il fare artistico e la pratica dello yoga si somiglino tanto da poter essere l’uno il continuo dell’altro nella mia quotidianità.

“Per far cessare l’attività mentale occorrono il distacco e la pratica, il passivo e l’attivo, non attaccamento e metodo.”

                                        Patanjali, Yogasutra, (1.12)

Sono sempre più convinta che le vere opere d’arte siano i risultati di un’intuizione che dura poco più di un istante, un attimo in cui la mente guarda se stessa con luce limpida e concentrata, in contemplazione. Per raggiungere una tale fortunata condizione c’è bisogno di un training psico-fisico e mentale costante, un metodo, che possiamo più facilmente capire se pensiamo al teatro. L’arte della recitazione da decenni oramai fonda la sua importanza sullo studio dei linguaggio nella sua totalità.

A mio parere poco cambia se la tela sostituisce il palcoscenico e il museo una platea. Sto studiando molto su queste associazioni e non ti nego che mi piacerebbe scriverne un libro.

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Gold 24kt (2019) l’hai definito “una dedica”; la descrizione di Why do things have to be so hard (2017) si chiude, invece, con la citazione “Siamo quello che ci manca, da per sempre” di Carmelo Bene. Devo confessarti che, in entrambi i casi, mi sono commossa. Ti va di raccontarmi meglio cosa rappresenta per te il vuoto?

Il vuoto è per me potenza. E’ lo stato puro di tutto quello che è prima di essere e dopo essere stato, un non essere perfetto, in pace, che basta a se stesso, immobile. Senza il vuoto non avremmo il pieno, nell’arte e nella vita (come arte). 

Ma cercando di essere più concreta sull’argomento ti confido che ho grande rispetto della mancanza nel pensare i miei lavori nel senso che cerco sempre di bilanciare il peso della materia fisica con quello della vita non tangibile che la completa e le dona dignità.

Parlando nello specifico di Gold 24kt in quel caso i 3 cilindri disposti nello spazio di Baco facevano da cornice alla perfezione di quell’ambiente e dell’animo della persona a cui erano dedicati, la abbracciavano.

A cosa stai lavorando attualmente? Davanti a quale orizzonte?

Attualmente sto lavorando su un paio di nuovi progetti a Pescara. Il mio orizzonte di riferimento è il mare, il massimo a cui ambivo negli ultimi mesi trascorsi a Milano.

Affrontando il più tranquillamente possibile questo momento storico sto dedicando il mio ultimo 2020 alla dignità di ciò che resta. Un mio nuovo lavoro sul tema dello scarto sarà presente all’inaugurazione del Premio Francesco Fabbri il prossimo Gennaio 2021.

Vorrei chiudere condividendo con te un ricordo e facendoti una richiesta del tutto personale. Ti vedo spesso nella mia memoria composta su una sedia a prendere appunti su un quaderno dalle pagine bianche sulle quali, però, hai tracciato linee in diagonale per guidarti nell’annotare i tuoi pensieri. I segni su quel quaderno sono ordinati, precisi, di varie dimensioni: una mappa del pensiero. Sarebbe bello potessero diventare un’opera.

Chissà, forse un giorno. Intanto ne condivido volentieri qualche pagina con te!

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