Maturità 2017 – Credo che la maturità rappresenti il momento in cui inizi a porti un mucchio di domande.

Per maturità non intendo l’esame di Stato, che è solo un numero tra 60 e 100, ma quel momento della vita in cui ti fermi per la prima volta ad osservarti davvero, letteralmente, e ti chiedi se tutto quello che vedi adesso è sempre stato lì. Sono giorni che mi guardo le mani ed è buffo, perché più le guardo e più non le riconosco, e più devo familiarizzare di nuovo con questa parte ora così estranea di me, che è cambiata tanto mentre io non ci badavo, mentre io vivevo, ed ora è qui che richiama la mia attenzione e mi chiede a sua volta: e tu chi sei? E io non so rispondere.

Non nascondo che in questa mia fissazione di guardarmi le mani ci sia in parte anche una speranza nevrotica di scorgere un po’ del mio futuro prossimo, ma al di là di ciò, le mie mani mi stanno dando il senso del distacco da tutto ciò che è stato fin qui. Mi piace pensare che sto salutando la Camilla che ero, quella a cui lascio delle mani che conosco meglio, forse più belle, senza questa cicatrice che mi sono procurata recentemente, ma che non vanno più bene per me, non mi pongono più le domande giuste. E quali sono le domande giuste? Una è già stata detta, abbastanza onnicomprensiva: e tu chi sei? Forse una domanda simile rappresenta un passaggio obbligato per l’approdo alla maturità, ma non perché la sua risposta saprà aprire chissà quali porte sul domani: perché resterà così, senza soluzione.

Avrei potuto parlare di quanta ansia ho per quel maledetto numero che da qui a tre settimane mi verrà affibbiato, ma non ho voluto farlo, perché la mia maturità è stata anche comprendere che non sarà quel numero, appunto, a rispondere a questa domanda, a dirmi chi sono io. Sarà la fine di un percorso, un punto di verifica necessario, una valutazione più o meno asettica in cui credo che avremo il diritto di sentirci un po’ stretti, ma non dirà nulla di noi né di quello che siamo stati. Dirà forse molto di come funziona la scuola oggi, con la sua incapacità di scoprire talenti, di accendere gli animi, e la sua propensione a far sentire stupido chi si esprime con linguaggi lontani da quelli che propone, o forse parlerà un po’ anche di quella scuola buona, che dà frutti, quella dialogante e infervorata di passione e amore per una cultura verace, per un contatto fecondo, pregno d’umanità.

Confesso che, tra le mie speranze, c’è anche quella di prendere parte a questo sistema bizzarro e malandato che è effettivamente la scuola, dopotutto non si può criticare aspramente qualcosa se non la sia ama almeno un po’, e io in fondo la amo. La amo perché, tralasciando le esperienze negative, è lei che mi ha insegnato a pormi domande, la parte non incancrenita di lei mi ha insegnato che il futuro si costruisce sulle risposte non date, sui limiti da superare, sui muri da demolire -e di muri la nostra storia ne conosce, e ne continua a conoscere-. Ed è con questo spirito che voglio affacciarmi alla vita: con la consapevolezza che, oggi, non è più possibile pretendere di avere soluzioni, non è più pensabile un mondo in cui la felicità si raggiunga tramite un’unica strada sterrata, ma ci è ancora permesso sperare, riflettere, interrogarci, rimuginare, prendere tempo, il che significa che ci è concesso ancora essere contro corrente, rifiutare quei valori che ci stanno stretti, non essere asserviti all’etica della velocità se essa non ci aggrada.

Questo auguro a me e a tutti coloro che, tra qualche anno, ricorderanno ancora che musica ascoltavano in questi giorni, quanto erano scottati dal sole o quanto pallidi, a chi pensavano tra le pagine dei libri, quanto fosse bello essere a un passo dalla fine ed esserlo tutti insieme. Auguro di porsi domande sempre e senza paura, perché non ci servono delle risposte, ci serve l’ambizione di cercarle e di farlo adesso e per sempre.

In bocca al lupo,

Camilla