Maschere ed arte contemporanea – Corpo ed identità: luoghi personali ma mai del tutto familiari, dove la costante ricerca operata dalle arti visive nasconde e disvela, tra maschere e nuovi modelli di rappresentazione e comprensione di sé e degli altri.

L‘arte contemporanea ci ha insegnato ed abituato a ridefinire innumerevoli canoni estetici: come un largo ed insaziabile contenitore che fagocita dentro di sé tutto ciò con cui viene a contatto, si è servita dei più disparati strumenti, materiali e mezzi espressivi, appropriandosi di gran parte delle novità che si sono alternate nel corso degli anni. Possiamo dire che quest’ansia di modernità determinata dal voler essere a tutti i costi al passo (ed alle volte anche avanti) con i tempi, si sia sviluppata a partire dai primi decenni del 900 con la nascita delle avanguardie storiche, che rappresentano una cesura netta e definitiva con la precedente tradizione artistica, un salto nel vuoto oltre il quale il concetto del fare artistico sarà totalmente stravolto, demistificato e riplasmato. Centrali nel campo delle innovazioni saranno poi sicuramente le tendenze di quella che viene ormai comunemente definita “Body Art”, un’etichetta storico-artistica da prendere però con le dovute precauzioni in quanto comprendente una serie di esperienze tra loro molto eterogenee e non circoscrivibili in un unico lasso temporale. Una tra le pratiche che emerge in maniera prepotente da questo grande e variegato insieme consiste nella resa del proprio corpo, attraverso travestimenti e camuffamenti, completamente partecipe e protagonista dell’opera stessa, la quale verrà documentata poi tramite l’utilizzo di fotografie oppure portata in scena attraverso vere e proprie performances. L’artista diviene in tal modo non solo attore, ma anche spettatore della frammentazione del proprio io proiettato all’esterno e riconfigurato in maniera prismatica. Maschere ed arte contemporanea si fondono per creare un linguaggio disorganico.

E come non aprire le danze di questo ballo mascherato poco convenzionale se non con un pilastro dell’avanguardia, l’instancabile Marcel Duchamp, che nel 1921 posò per un fotografo d’eccezione, Man Ray, indossando abiti da donna e dando vita al suo ben noto alter-ego: Rrose Sélavy. Rrose era un tipetto particolare, amava sfoggiare eleganti pellicce ed anelli vistosi, trovava diletto nell’attività artistica ed arrivò anche a produrre una fragranza profumata dal nome La Belle Haleine. Attraverso questa metamorfosi Duchamp, com’era solito fare, rimescolò e confuse i confini tra mondo maschile e femminile, interrogandosi anche sulla centralità dell’amore. Il suo nuovo nome di battesimo infatti (con cui firmerà anche diverse produzioni), se letto con la pronuncia francese suona come “Eros c’est la vie”.

Questa esperienza avrà molte ripercussioni all’interno della storia dell’arte: basti pensare che circa sessant’anni più tardi l’icona Pop Andy Warhol, nella sua più totale eccentricità ed autoreferenzialità, darà vita alla serie Self-Portrait in Drag, chiara rielaborazione del precedente duchampiano. Artista straordinaria purtroppo a lungo dimenticata dalla critica è Claude Cauhun, che nelle sue opere si è proposta di raggiungere e delineare un genere sessuale amorfo, non uomo o donna quindi, ma neutro. Anche George Maciunas, fondatore del gruppo Fluxus, ha promosso un’idea di anti-arte dove la fissità dei valori precostituiti lasciasse il posto ad un flusso incessante di idee. La sua stessa identità si è fatta portavoce di queste vibrazioni esenti da ogni tipo di stereotipo, scivolando in maniera liquida e libera tra maschile e femminile. In anni più recenti l’artista scozzese Douglas Gordon ha riletto in chiave ironica questa tendenza con l’opera Selfportait as Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Myra Hindely, as Marilyn Monroe, basta una sola parrucca bionda a forma di caschetto e l’artista si ritrova ad essere al tempo stesso uno, nessuno e centomila.

Marcel Duchamp
Marcel Duchamp
Andy Warhol
Andy Warhol
Claude Cahun
Claude Cahun
George Maciunas
George Maciunas
Douglas Gordon
Douglas Gordon

Sono molti coloro che hanno scelto di modellare la propria identità come fosse materia scultorea, plasmando tramite l’utilizzo del tableau vivant la propria corporeità con la stessa veemenza con cui Michelangelo affrontava il blocco di marmo. Fra di essi spicca il nome del maestro Luigi Ontani, personalità mistica e poliedrica, un esteta etereo che nelle sue opere ha coniugato la fascinazione per il mondo orientale ad un gusto per il narcisismo e l’esaltazione dell’ego, trasportando lo spettatore in un universo fiabesco in cui l’immagine si fa ieratica metafora. Il suo bagaglio iconografico spazia dall’agiografia al repertorio della storia dell’arte, cosa quest’ultima molto diffusa anche tra altri artisti. Cindy Sherman ad esempio ha utilizzato sé stessa per rielaborare opere quattro-cinquecentesche, ma è conosciuta soprattutto per i travestimenti in cui ha riflettuto e puntato il dito contro gli stereotipi che la società tende ad affibbiare alle donne.

 

Luigi Ontani
Luigi Ontani
Luigi Ontani
Luigi Ontani
Cindy Sherman
Cindy Sherman
Cindy Sherman
Cindy Sherman

Come già detto anche in ambito performativo molto diffusa è la tendenza al travestimento, che diviene un modo paradigmatico per esplorare limiti, valori e tendenze moderne, ma anche per manifestare tematiche più autobiografiche. Nel 1956 un’artista giapponese appartenente al gruppo Gutai, Atsuko Tanaka, utilizzò delle lampadine ad incandescenza per costruire un abito che ha indossato nella performance Electric Dress, tra sperimentazione ed interesse per le possibilità dei nuovi materiali.

In tempi passati un’altra artisa giapponese ben più nota al grande pubblico per le sue zucche, l’ossessione per i pois e gli ambienti riflettenti, Yayoi Kusama, fece del vestiario un vero e proprio strumento artistico. Negli anni 60 ha infatti realizzato numerosissimi fashion happenings, spesso volti a scuotere l’opinione pubblica tramite toni fortemente provocatori e a volte piccanti. Questa suo interesse per le possibilità del fashion sistem l’ha portata tra l’altro a realizzare nel 2012 una particolare collezione insieme alla maison francese Louis Vuitton, dove i leitmotiv che hanno costituito il suo linguaggio sono confluiti su una serie di stravaganti capi ed accessori.

Volta ad un racconto più intimo ed autobiografico è invece l’esperienza di Rebecca Horn, artista tedesca che ha fatto un largo utilizzo di body extensions, ovvero supporti attaccati direttamente sul suo corpo o quello di terze persone, che le son serviti per inscenare performances dove domina il tema del corpo che, oppresso da agenti esterni, non riesce a muoversi liberamente. L’estensione si trasforma perciò in un peso opprimente che non permette all’individuo di portare a termine le azioni che si propone di fare, anche afferrare semplicemente un’oggetto diventa ardua impresa in una performance come Finger Gloves, in cui vengono indossati inquietanti guanti con delle terminazioni lunghe ed appuntite. La Horn era infatti stata a lungo tempo costretta a letto a causa di una grave malattia che le impediva una libera deambulazione, le sue azioni divengono perciò quasi i tasselli di un rituale purificatorio dove l’estetizzazione del malessere diviene allo stesso tempo anche la sua cura.

Ultima pratica quella di Gilbert & George, due artisti britannici famosi per l’essersi resi delle “living sculptures”, come amano definirsi. Il duo si è spesso travestito con il tipico outfit inglese fatto di bombetta e bastone, dipingendo il volto con vernici oro ed argento al fine di raggiungere un’impersonalità scultorea, realizzando delle performances nelle quali erano loro stessi l’opera messa in mostra. Ultima conseguenza del ready-made duchampiano, l’artista decide di presentare direttamente sé stesso designandosi come opera, l’unione tra arte e vita raggiunge un punto tale da non poterne più tracciare i confini.

Atsuko Tanaka
Atsuko Tanaka
Yayoi Kusama
Yayoi Kusama
Rebecca Horn
Rebecca Horn
Rebecca Horn
Rebecca Horn
Gilbert & George
Gilbert & George

Maschere, travestimenti, camuffamenti, sono quindi i segni di una semiologia incerta ed ancora da approfondire, che evidenziano però in maniera quanto più diretta possibile come il corpo sia ormai divenuto un veicolo di messaggi simbolici a cui non poter guardare con attenzione, tendando di scopire ciò che si nasconde dietro il velo di Maya.