Fare il pane è una sfida perchè il pane è di tutti, è quotidiano, democratico, diffuso, antico e condiviso, eppure ciascuno sa quale pane gli appartiene e quale no: è sempre troppo cotto per qualcuno e troppo crudo per qualcun altro, troppa mollica o troppa crosta, troppo alto, troppo basso.
La mia stessa famiglia si divide tra pane salato e sciapo, cotto a legna o in altri modi, qualcuno abusa del pane in cassetta, qualcuno ha dichiarato il suo amore alla baguette, ciascuno negli anni ha maturato un intimissimo e personalissimo rapporto col pane che è intoccabile.
Il primo aprile del 2020, ho accolto la sfida di panificare. Nelle case italiane era già nata e si era già diffusa a macchia d’olio una spontanea necessità di impastare dovuta all’inedita abbondanza di tempo libero concesso dalla quarantena, portandosi dietro da subito riflessioni, meme e un’animata caccia al lievito.
Nel mio caso – lo sapevo dall’inizio – l’iter per fare il pane prevedeva una fase aggiuntiva rispetto alla prassi: convincere mia madre. È la stessa, eterna, storia che si ripete da sempre: io che faccio il figlio perfetto per un giorno sperando, in quello seguente, di essere supportato nella proposta di (in ordine casuale dalla mia infanzia ad oggi) fare le sculture con il pongo, piantare nuovi fiori in giardino, giocare con la ceramica, pitturare un mobile o una parete, smontare una sedia, fare una ghirlanda, scambiare le tende della sala con quelle della camera, costruire una tana per la tartaruga, ripensare la disposizione dei mobili, sostiuire le lampadine per ottenere nuovi effetti di luce, imparare a suonare la chitarra, usufruire del “servizio buono” per l’ordinario rito del tè.
-“ma se facessi il pane?”
-“non esiste.”
Diciamo che la mia naturale predisposizione al disordine si scontra più di qualche volta con l’ordine maniacale che caratterizza mia madre e la maggior parte delle madri italiane, ma una buona dose di insistenza mi fa vincere (quasi) sempre e anche in questo caso ho ottenuto ciò che avevo chiesto. Con tutti gli ingredienti disposti sul piano di lavoro, panifico.
Nessun incidente di percorso, nessun incendio e nessuna ustione, non una goccia di sangue o altri consueti accadimenti che in genere mi portano ad esclamare “eccheccazzo” con la stessa potenza vocale di Pavarotti. In verità vi dico: questi sono solo gli antefatti. Ottenere di fare il pane mi serviva ad avere un consenso più arduo pochi giorni dopo:
-“ma se facessi il pane rosa?”
-“non esiste.”
Un’altra volta vi racconterò di come quel “non esiste” sia diventato “Nichi rifaresti il pane rosa per gli ospiti di stasera? Anzi fanne tanto così lo mettiamo nel congelatore grande (elettrodomestico indispensabile in ogni famiglia nuemerosa e affamata) per le prossime volte”.
Una cosa che mi caratterizza è la volontà di trasformare ciò a cui si è diffusamente abituati in una originale versione rosea, tipo Re Mida, ma meno presuntuoso.

Fatto sta che, alla fine di una quarantena in cui la barbabietola è stata mia alleata nella roseazione, un numero consistente (secondo me) di persone ha iniziato a riconoscermi in quanto produttore di pane rosa (e questo mi fa onore).
Ma cosa ho imparato da questa esperienza?
- Niente di che: ho solo impiegato il mio tempo in un modo nuovo e singolare, com’è capitato a molti.
- Le cose semplici, ovviamente, non sono complicate, ma possono essere complesse: “era un pezzo di pane” è un modo di dire troppo riduttivo, perchè un pezzo di pane era una giusta dose di acqua, farina e lievito, un attento controllo durante la cottura e un progetto preciso e puntuale.
- Mamma, potresti essere più permissiva!