La pandemia ci ha spinto a rivalutare il contesto urbano in cui viviamo, a immaginare nuovi luoghi ed abitudini che secondo noi renderebbero la città più vivibile e accessibile. Tuttavia, come possiamo progettare la città futura se non possiamo andare fisicamente sul campo? Cosa ne sarà dei processi di progettazione partecipata? Mi è subito venuto in mente il progetto Bologna Block by Block di Verso, collettivo di giovani architetti di Bologna che ha ideato laboratori di co-progettazione per ragazzi attraverso il videogioco Minecraft.

Chiara Ferioli e Lorenzo Balugani sono tra i fondatori di Verso e coordinatori di Bologna Block by Block. Mi raccontano che Verso è sempre stato in stretto dialogo con realtà del territorio a cui spesso mancano competenze tecniche nei campi di architettura e urban design . Nella filosofia professionale ed etica di Verso il processo diventa il centro di tutto: coinvolgere qualitativamente e in modo critico i cittadini più giovani, piuttosto che limitarsi a raccogliere il loro punto di vista. È un modo di lavorare più discorsivo e meno deliberativo, più simile a quello di uno studio di architettura che ad un tavolo istituzionale tradizionale; capace quindi di spostare il fulcro del processo partecipativo dalla consultazione alla produzione degli spazi urbani.

Come è nato il progetto Bologna Block by Block?

Il progetto si inserisce all’interno del contesto delle casi popolari e popolarissime del quadrilatero Scalo-Malvasia, nella primissima periferia di Bologna. Nata come comparto di edilizia popolare dell’IACP durante il fascismo, l’area ha continuato a degradarsi nel tempo, sia dal punto di vista spaziale che sociale, diventando ricettacolo per attività illecite e rimanendo così tagliata fuori dal resto della città, nonostante la prossimità al centro storico e l’assenza di barriere fisiche ai margini dell’isolato.
Per questo motivo, già prima del nostro arrivo, l’area era stata selezionata dalle istituzioni come punto strategico per l’inserimento di un nuovo parco pubblico, denominato “Parco della Resilienza“, proposto non solo allo scopo di recuperare uno spazio sociale e fisico degradato da decenni di disattenzione istituzionale, ma altrettanto con l’idea di proporre un modello di spazio urbano resiliente, capace di rispondere al cambiamento climatico.

Così, a seguito di un percorso partecipativo guidato da Fondazione Innovazione Urbana, si sono raccolte, nell’arco di due anni, le opinioni e le aspirazioni dei residenti, arrivando ad un progetto definitivo, approvato nell’estate del 2020. In questo processo di discussione pubblica, tuttavia, era nostra opinione che alcuni aspetti cruciali fossero stati trascurati e che meritassero di essere ripresi.
Innanzitutto il fatto che, nonostante i ripetuti sforzi delle istituzioni, il processo non sia stato capace di coinvolgere in modo significativo la popolazione residente, non solo numerosa, ma altrettanto varia dal punto di vista etnico e culturale. In secondo luogo che, a causa di vizi formali, un intero settore del comparto sia stato escluso dagli interventi per la riqualificazione degli spazi verdi e che, parallelamente, per questi spazi non sia stato proposta pubblicamente un’alternativa. Infine il fatto che non sia stato previsto un uso e uno spazio sociale temporaneo nelle aree non soggette all’intervento nel periodo lungo il quale l’accesso agli spazi verdi sarà interdetto dal procedere del cantiere.

Quest’ultimo punto in particolare risulta essere fondamentale, non solo considerando la durata dei lavori, ma altrettanto tenendo a mente il disagio sociale che caratterizza l’area, come il problema dell’isolamento delle persone anziane, ma anche quello causato dalla sospensione di spazi sociali di prossimità per i più giovani. ​Per queste ragioni abbiamo ritenuto quindi fosse necessario riavviare una discussione partecipata per pensare a spazi di transizione che possano rispondere alle esigenze di gioco dei più giovani, alcuni dei quali hanno passato quasi un terzo della loro vita chiusi in casa, e a quelle degli anziani, per i quali uno spazio aperto sotto casa è fondamentale.

Così, nel giugno 2021, in collaborazione con il centro sociale TPO e gli attivisti di YaBasta! Bologna abbiamo organizzato un laboratorio di due settimane in cui, attraverso l’uso del videogioco Minecraft abbiamo riprogettato le aree stralciate dal progetto per proporre spazi sociali di transizione nel comparto. Il metodo di Bologna Block by Block si basa su un progetto delle Nazioni Unite. L’interfaccia del videogioco permette a qualsiasi cittadino di adoperare strumenti di progettazione solitamente nelle mani degli architetti, permettendogli di comunicare senza dover usare software tecnici. In Bologna Block by Block, Verso crea un processo di co-creazione critico e qualitativo. Di solito la progettazione partecipata chiede risposte su cosa già sappiamo (i classici questionari del “cosa vuoi? cosa non vuoi?”). Bologna Block by Block invita piuttosto a pensare in modo critico e progettare insieme, per produrre una conoscenza nuova nata dall’incontro con gli altri piuttosto che dalle proprie esperienze di vita. L’unico modo per offrire veramente empowerment decisionale a chi non appartiene alla classe dominante è abilitare i cittadini a dare significato alla città.

Quando questi processi diventano digitali, un architetto-nomade può lavorare virtualmente? Il “non avere radici” facilita il passaggio (a distanza) da un contesto all’altro? 

Di solito pensiamo che un ingegnere informatico può lavorare in ufficio come in un internet café o in spiaggia.  Oggi però l’architettura è già nomade: Considerando che molti studi lavorano più all’estero che nel proprio Paese, in teoria oggi l’architettura è già nomade. Alcune professioni e processi però rimangono inevitabilmente legati alla fisicità dei luoghi, alla loro storia e alle loro persone. Deve essere un lavoro locale. Block by Block non è un nuovo modo di pensare la partecipazione a distanza, al contrario è un processo di prossimità, di contatto, valido a prescindere ma sicuramente applicabile nel contesto in cui si agisce. Progettare senza esperienze di un luogo o senza conoscerne la storia risulta sempre difficile, quindi non possiamo definire il nomadismo come essere altrove senza esserci veramente. Gli strumenti tecnologici di oggi dovrebbero perciò supportare un tipo di nomadismo che mantiene ed integra qualche forma di presenza sul campo. 

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Considerate il rischio che l’immaginazione sfoci nell’estraneazione? Lavorando più su Minecraft che sul reale, come si realizza impatto concreto grazie a un progetto come Bologna Block by Block? 

Secondo Chiara e Lorenzo di Verso, “ritorno al reale” è parte fondamentale del project design. Il virtuale deve essere abilitante rispetto ai bisogni concreti a cui vogliamo rispondere, permette di immaginare in modo economico alternative alla città (e a come si pensa la città) anche se non si hanno le risorse necessarie per produrre e testare queste soluzioni sul campo. Ci si avvicina molto all’architettura temporanea e al DIY quando cerchiamo di riarticolare dimensioni urbane in modo nuovo e a costi ridotti, e in più facendolo collettivamente.

Inoltre, lavorare con realtà e comunità territoriali è di sicuro il primo passo per stimolare cambiamenti reali. Dipende molto dalla capacità di allinearsi a lotte e ambizioni esistenti e reali nello spazio urbano. Ad esempio, un gruppo che lavora con Minecraft ha creato The Uncensored Library, una biblioteca digitale che racchiude testi censurati da tutto il mondo. Non vuole risolvere il problema della censura, ma riesce a spostare temporaneamente la lotta su un altro piano, non accessibile a certi strumenti di controllo. È comunque un’azione politica notevole.

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Voi personalmente sentite di essere in qualche modo nomadi? 

Crediamo che il nostro nomadismo sia più mentale: quando ci troviamo a passare da un contesto all’altro, cerchiamo ogni volta di immedesimarci, da Bologna al Sud America all’Africa. Per noi è fondamentale entrare in contatto o in collaborazione con realtà di Paesi diversi da quello in cui sei nato o in cui vivi. Cerchiamo di produrre fin dall’inizio idee creative e critiche a livello transnazionale, piuttosto che pensarle a livello locale e poi espanderle altrove. In merito riteniamo infatti che l’unico modo per immaginare strutturalmente un futuro diverso, quindi per andare al nocciolo dei problemi che caratterizzano lo spazio urbano oggi, sia proprio quello di adottare un approccio nomade e internazionale, perché nomade e internazionale è la natura dei processi che producono oggi gli spazi e le città in cui viviamo, nel bene come nel male.

E come giovani architetti emigrati all’estero? Come vi rapportate con le vostre “radici italiane”?

Per noi la tradizione accademica ha un po’ una doppia faccia. Da una parte, il corso in cui studiamo a Londra ha più della metà dei professori di origine italiana, tutti con un’eccellente formazione. Dall’altra, la tradizione diventa limitante nella misura in cui rimane tecnica. Ogni volta che volevamo deviare il nostro percorso lo abbiamo dovuto fare altrove. In Italia gli architetti hanno sempre lo stesso curriculum di un professionista che conosce le tecnologie tradizionali, il patrimonio architettonico e una serie di competenze tecniche. Viene chiesto di conoscere e saper fare delle cose anche senza avere una posizione critica o politica. Noi riteniamo al contrario che l’architetto abbia una responsabilità politica ed intellettuale che va assolutamente ripresa e messa al centro della professione. Occorre riprendere in mano quindi un’idea di professione capace di collocare la persona dietro l’architetto dal punto di vista etico e politico, oltre che tecnico. Occorre ricordarsi che è professionista solo colui che ‘professa’, nel senso di qualcuno che sia capace di contribuire alla costruzione della città con spirito critico e maturità filosofica; che sia capace, in altre parole, di produrre idee piuttosto che prodotti.

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Questa forma di “nomadismo formativo” è sinonimo di transdisciplinarità? Qual è l’impatto sulla professione dell’architetto-nomade?

Il rapporto tra nomadismo e transdisciplinarità non riguarda solo le conoscenze acquisite mentre ci spostiamo tra diverse tradizioni, esperienze, condizioni tra Paesi. Essere nomadi è piuttosto una postura mentale, una buona abitudine che permette di rimanere all’interno della propria disciplina mentre veniamo esposti a modi diversi di pensare e di vedere il contesto in cui ci troviamo. Oltre a Bologna Block by Block, Verso ha conosciuto esperienze di cooperazione internazionale in cui venivano richieste tempo e competenze di un professionista. In Italia ci sono ancora poche opportunità per reinventare la figura dell’architetto intorno a processi ed obiettivi di impatto sociale, uscendo dal canonico studio: ad esempio, gli adulti percepiscono ancora poco il valore intrinseco del dare empowerment ad un bambino per fargli progettare la città.

Dopo la raggiunta dell’obiettivo di crowdfunding su Produzioni dal basso, quali sono i prossimi step di Bologna Block by Block?

Causa Covid, abbiamo dovuto rimandare diverse volte i laboratori di questo progetto pilota, ma alla fine è andato tutto bene e i ragazzi e le ragazze si sono divertiti moltissimo. Stiamo caricando sulla nostra pagina di Sketchfab le proposte dei ragazzi. In questo senso è fondamentale dire che per noi era un punto imprescindibile fin dall’inizio quello di organizzare il workshop in presenza. Nonostante infatti le possibilità offerte dal videogioco di lavorare online anche a distanza, questo avrebbe impedito un’interazione personale che riteniamo necessaria per lo sviluppo di un pensiero critico e consapevole. Se era nostra intenzione infatti quella di esportare il nostro modo di lavorare al di fuori dello studio, questo non sarebbe stato possibile rinunciando alla fisicità e alla materialità delle relazioni che lo caratterizzano. Le stesse dinamiche di conflitto, spesso edulcorate nello spazio digitale, sono un aspetto fondamentale del progettare. Questo, quindi, il motivo per cui si è aspettato tanto.

Per quanto riguarda gli step successivi è nostra intenzione lavorare alla restituzione di quanto prodotto dalle e dai partecipanti, in modo che sia accessibile anche a chi non è pratico della piattaforma. Obiettivo fondamentale diventa quindi ora quello di estendere la discussione al resto della popolazione che risiede nell’area di intervento, a partire dai genitori, scarsamente coinvolta nelle fasi del processo partecipativo più istituzionale che ci ha preceduto. Parallelamente lavoreremo per negoziare con i partner, i residenti e le istituzioni per vedere cosa sia possibile realizzare di ciò che è stato immaginato.

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