Tra un FaceTime, una lievitazione naturale e una maratona Netflix, durante la cosiddetta Fase 1 ho incontrato Alessandra Covini e Giovanni Bellotti, founders di Studio Ossidiana. Un incontro virtuale ovviamente, un po’ per le disposizioni di sicurezza, un po’ perché io sono a Roma e loro a Rotterdam, dove hanno stabilito la loro attività a seguito del completamento degli studi in Architettura presso l’University of Technology di Delft.

Sperimentazione e ricerca trasversale: a volte artisti, a volte designer, a volte architetti. Studio Ossidiana è un progetto in continuo divenire, che si muove a scale diverse.

Il lavoro di Studio Ossidiana è indubbiamente singolare nel suo approccio alla sperimentazione della materia, delle texture, del colore. Da dove nasce questo interesse?

È stata una reazione. Abbiamo studiato architettura a Delft e ci siamo resi conto che la sperimentazione riguardo la cultura dei materiali non era così ricca o innovativa rispetto al contesto e al momento storico che stavamo vivendo. In quel periodo non era molto chiaro cosa volesse dire fare l’architetto. Mentre noi studiavamo moltissimo disegno e altre tecniche di rappresentazione, come il collage, Design Academy di Eindhoven si facevano progetti di grande innovazione materiale. Ci mancava fisicamente la materia e la spontaneità del lavorare con i modelli e allora ci siamo chiesti come l’architettura potesse relazionarsi con questa tecnica. Non era una critica, piuttosto una curiosità di guardare l’architettura attraverso lenti che non avevamo ancora usato. Lavorare con i materiali ci dava anche la possibilità di far si che tutto quello che veniva prodotto nella fase intermedia di progetto fosse in sé un progetto.

Come affrontate lo sviluppo di un progetto?

Per quanto possano essere eterogenei abbiamo un metodo che ritorna in tutti i progetti. Seguiamo sempre una fase di ricerca iniziale: storica, piuttosto che tipologica, formale o materica; poi c’è il momento di traduzione in progetto, sempre relazionato alla tecnica scelta. Amsterdam Allegories ci ha aiutato a catalizzare questo metodo di ricerca costantemente tradotta in forme e materiali scalabili. Siamo molto legati al lavoro con i modelli e alla ricerca che possa essere portata avanti da un progetto all’altro. La piccola dimensione del nostro studio ci lascia più libertà, possiamo far si che alcuni progetti abbiamo la possibilità di considerarli come tasselli di una stessa storia.

I nuovi linguaggi e i nuovi trend del design internazionale si discostano sempre più dalla serialità del disegno industriale. Abbracciano invece temi più astratti come lo storytelling, l’effimerità, l’unicità. Secondo voi Studio Ossidiana si riconosce questo linguaggio? Si può parlare di coesistenza di design e arte?

Una cosa strana che ci è successa è che quando abbiamo cominciato a lavorare come Studio Ossidiana è emerso un linguaggio che in realtà non era né suo né mio, in parte anche legato alla dimensione piccola in cui ci muoviamo in questo momento e che ci sta dando tanto spazio. Secondo noi molto del nostro linguaggio viene dal lavoro con i materiali, ma c’è da dire che per noi l’oggetto/scultura è sempre funzionale ad un passaggio di scala. In pratica realizziamo modelli architettonici, ma siamo felici se acquistano una certa autonomia e diventano sculture con un linguaggio a sé. C’è un collegamento diretto infondo tra arte e materialità, e c’è anche grande autonomia e possibilità di ricerca, perciò in qualche modo siamo legati ad una dimensione più libera della progettazione. Tra l’altro, una volta, durante una presentazione, la direttrice di Terremoto che disse che per lei “arte è solo la sospensione della realtà”, la magia, la witchcraft. Questa interpretazione ci è piaciuta, da allora l’abbiamo tenuta a mente.

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Sentite che il legame con l’Italia influenzi o abbia influenzato il vostro lavoro?

È una domanda che ci fanno molto. La risposta è si, siamo cresciuti in Italia d’altra parte, però non è uno strumento che tiriamo fuori al momento del progetto, è qualcosa che influisce in maniera inconscia. Quando presentiamo i nostri lavori ci chiedono di Ettore Sottsass e di Aldo Rossi, ma in realtà non sono tanto le loro forme o i loro progetti ad ispirarci. E’ più come se li avessimo assorbiti e ora li guardassimo con occhi diversi. Siamo sicuramente influenzati dai nostri eroi nelle metodologie di progetto. Inoltre, il rigore che ci ha dato la scuola di architettura italiana ci consente, con un po’ di distacco, di agire con una struttura super flessibile. Tuttavia, guardiamo ai progettisti italiani così come a quelli internazionali, siamo l’uno e l’altro. Anche qui in Olanda, dove viviamo, siamo circondati da un paesaggio completamente diverso, per conformazione e possibilità di azione, ma a volte ci sembra familiare. I polder non sono così diversi dalla Pianura Padana.

Avete fatto diversi viaggi durante il vostro percorso di studi, ma avete scelto Rotterdam come base operativa per Studio Ossidiana e per le vostre vite. Com’è essere designer in Olanda? Quanto e come cambia la percezione e la fattibilità di questo lavoro nei diversi luoghi in cui avete vissuto?

L’Olanda è il primo paese in cui abbiamo cominciato a lavorare veramente, le siamo estremamente grati per tutte le possibilità che offre, a partire dall’Università che cerca di spingere oltre il pensiero degli studenti. Certi progetti che facciamo qui sarebbero impensabili in Italia, anche per il tipo di committenti che ne fanno richiesta. Ad esempio, ora dovremmo realizzare Fire Dunes, un paesaggio di dune disseminato di una serie di oggetti/sculture, variazioni di camini e modalità di cottura. Non ci aspettavamo che la presentazione di una serie di dune infuocate riscuotesse tanta approvazione ed entusiasmo. Nuove nature, nuove forme che poi diventano spazi pubblici completamente sperimentali: hanno senso qui. C’è tanta flessibilità; in Olanda è possibile realizzare progetti radicali, di prenderti più rischi, contando sulla fiducia del pubblico e della committenza, ma anche su una grande praticità e supporto. Ad esempio attraverso le numerose borse di ricerca. Ad ogni modo, ci sono anche persone che stanno ritornando! In Italia abbiamo amici che hanno aperto studi e ricreato situazioni e ambizioni simili alle nostre. Ci piacerebbe fare più progetti in Italia, abbiamo già portato i nostri progetti al Salone del Mobile e attualmente Amsterdam Allegories è in mostra alla Triennale di Milano. Insomma, non siamo cervelli in fuga; piuttosto diciamo che non siamo ancora tornati.

Come state affrontando questo periodo? Non si fa altro che parlare di come la pandemia avrà effetti irreversibili sui bisogni e sulle esperienze future dell’uomo così, di conseguenza, anche sul progetto, specialmente dello spazio pubblico. Voi cosa ne pensate?

Oh no! Al momento stiamo resistendo all’idea che adesso il progetto degli oggetti e dello spazio debba solamente orientarsi al tema del Coronavirus. In questo Studio Ossidiana continua a lavorare a distanza con i vari collaboratori, anche se qui il lockdown è meno restrittivo rispetto al lavoro e agli spostamenti. Parlando di progettazione futura, in generale, dovremmo pensare quanto siamo disposti ad accettare ed integrare nello spazio pubblico anche le cose che ci fanno paura e che generalmente lasciamo fuori casa, che sia la pandemia o qualunque altra esternalità. Sicuramente prossimamente dovremo rinegoziare e riprogettare gli spazi per essere vicini, ma anche lontani. Parliamo di invenzione, non di pannelli di plexiglass sulle spiagge. Che poi, ha veramente senso affittare dei micro-quadrati di tela e respirare la puzza di crema solare tutto il giorno?

Domanda di rito: cosa consiglierebbe Studio Ossidiana ai giovani che hanno intenzione di intraprendere la vostra stessa carriera? Quali sono i migliori canali, secondo voi, su cui far conoscere il proprio lavoro?

È strano dare consigli per noi, perché in realtà siamo ancora nella fase in cui continuiamo a ricevere consigli da altri. Bisogna sperimentare il più possibile, cercare di reinventare tutto, senza accettare lo status quo. Dall’ambiente domestico allo spazio pubblico, sfidare l’esistente, creare novità. Poi è fondamentale scegliere un tema: può essere al momento della tesi, ma non per forza. Se, una volta scelto, ci si dedica abbastanza e lo si sviluppa con una certa coerenza e specificità allora si raggiunge una propria riconoscibilità. Non bisogna avere paura di ripetersi, la propria specializzazione si ramifica da sé, non sarà mai una reiterazione di uno stesso progetto.
Rispetto ai canali, il nostro preferito sono le mostre. Pagano poco, ma permettono di affinare il progetto e produrre contenuti veri. Noi abbiamo fatto varie mostre, facciamo presentazioni, interviste, conferenze. Continuiamo a parlare in pubblico, teniamo una certa distanza dai social, un po’ per pigrizia, ma anche perché, nel nostro lavoro, il rischio è che si diventi troppo autoreferenziali. Vanno usate più possibile le occasioni di apertura e contatto diretto, anche con persone e professionisti provenienti da diversi ambiti. Mai essere snob, soprattutto se si è all’inizio di questa carriera.