Bisogno dell’altro, sogni e fantasie. Intervista a Simone Bozzelli “regista del desiderio” durante la Quarantena da COVID-19.

Chi è Simone Bozzelli?

Nasco in una piccola città della costa abruzzese, dove mi sono avvicinato al cinema frequentando (e poi lavorando) nella videoteca vicino casa. Mi sono trasferito a Milano, volevo fare il montatore video, ma un docente nell’accademia dove studiavo ha insistito purché facessi regia. È così che ho scritto e diretto il mio primo cortometraggio, Mio fratello, che ha avuto un buon successo nei festival italiani. La scrittura di questo primo lavoro coincideva con un periodo abbastanza difficile, per me, dal punto di vista sentimentale: una vera e propria (de)formazione affettiva che ancora oggi mi porto e mi ustiona. Mi straziava quella che possiamo chiamare esperienza del desiderio, una ricerca o attesa del possesso che nel mio caso finisce sempre nella perdita di padronanza di me stesso.

Ho così scoperto che le immagini erano l’unico mezzo che avevo per soggettivare, fare mio, iò che mi stava investendo.

La tua ricerca visuale si muove all’interno della sfera del desiderio quindi, come riesci a rappresentarlo? Oggi più che mai, visto il periodo che stiamo vivendo, la ricerca dell’altro è un tema attualissimo; questo momento sta influenzando nuovamente la tua estetica?

Bisogna associare sempre il termine “desiderio” alla figura dell’Altro. Ecco perché trovo che l’arte di produrre immagini sia la più diretta e coerente per raccontarlo. Pensiamo alla figura del fotografo o del regista: entrambi guardano da un mirino del proprio dispositivo di ripresa, selezionano la porzione di mondo e la registrano, diventa loro. Aldilà dell’approccio visuale e tecnico che banalmente si risponde alla domanda: “Di questa situazione che mi si manifesta, che cosa mi piace – e dunque – cosa inquadro?”, sono affascinato della condizione, dalle sensazioni che tale desiderio (soddisfatto o insoddisfatto) comporta.

Nelle scuole di cinema insegnano che ogni personaggio è mosso dal desiderio. Se ne distinguono due tipi: il primo è il desiderio esterno corrisponde all’ “obiettivo conscio” del protagonista, quello verso cui sono rivolti tutti i suoi sforzi e le sue azioni. Il secondo è il desiderio interno, di natura psicologica e/o morale, ed è una mancanza di cui il personaggio non è del tutto consapevole ma che genera la sua vera infelicità. Sono le due facce della stessa medaglia. In questi giorni di distanza e solitudine, forse, l’esercizio che tutti noi possiamo fare per conoscerci un po’ di più è quello individuare, capire e separare questi due livelli del nostro desiderio, per poi tornare a viverlo meglio, o almeno più consapevolmente, con l’Altro.

Hai già girato 4 Corti, uno dei quali Amateur presentato al festival di Venezia del 2019; come sei riuscito a sviscerare il desiderio? C’è un filo conduttore o in ogni corto ne hai rappresentato una sfumatura diversa?

Esatto, non esiste un solo ritratto del desiderio. Tutti i miei personaggi messi insieme sono un piccolo mosaico delle figure del desiderio umano e come, questa esperienza, ci spinge a fare cose che prima non eravamo disposti a fare. Amateur è un piccolo film, tutto ambientato in una stanza. Una ragazza formosa, un bellissimo ragazzo e un cellulare. Cosa sono disposto a fare per compiacere l’oggetto del mio desiderio? Farlo ridere. E cosa lo fa ridere? Grugnire? Bene, allora grugnisco per lui.

Fin dove posso spingermi?

Amateur in un certo senso sintetizza il lavoro fotografico che porto avanti. Spesso le mie foto sono dettagli di parti del corpo o collage. La fotografia è un campo privilegiato per fermare in un fotogramma il desiderio sessuale. Quest’ultimo non si soddisfa soltanto nell’ascolto della parola, ma resta ostinatamente fissato sui dettagli: scarpe, piedi, ritagli del corpo. Spesso infatti, nella fotografia, mi servo della tecnica del collage per mettere insieme tutti questi elementi e sono gli stessi che ho cercato di (s)comporre in Amateur per ricostruire le piccole sensazioni di un pomeriggio di quello che sembra amore ma, al tempo stesso, umiliazione.

Questo periodo di reclusione forzata e di desideri spesso irrealizzabili ti ha stimolato a produrre qualcosa di nuovo ed inedito?

Ammetto di non soffrire la reclusione, sto scrivendo assieme al mio fidato sceneggiatore Tommaso Favagrossa il nostro ultimo cortometraggio, prima di passare a narrazioni più lunghe. Sto recuperando film e letture lasciate in standby e sto passando molto tempo con la persona che amo. Prima di pensare a tutte le cose che mi mancano, mi sto rendendo conto dell’importanza delle cose che ho.

La figura del regista oggi diventa sempre più fluida, a cavallo fra la fotografia, la grafica e tutte le arti visuali, cosa vuol dire essere un giovane regista oggi e come dialoga con il tuo utilizzo della fotografia e del collage?

Qualsiasi forma artistica ha inizio con uno sguardo sulla realtà. Del resto, realizzare un’opera audiovisiva o fotografica non è altro che dare la propria visione all’interno di un quadro – per convenzione in 16:9 – sulla realtà.

Parto da un dettaglio, un personaggio, un evento, una domanda che la realtà mi propone. La cosa che mi chiedo sempre prima di scrivere o di scattare è se sto facendo qualcosa che potrei raccontare solo io. È questa è la prima domanda che mi faccio. Se penso che il punto di vista che ho su una situazione, su un mondo, non è originale, non lo prendo in considerazione.

Cerco sempre di mutare, soprattutto nello stile visivo. Mi sento molto al sicuro nel navigare nello stesso nucleo tematico ma ho ho paura ad identificarmi in un preciso “stile visivo” e per questo cerco di rinnovarmi sempre dal punto di vista formale. Per esempio, mi ero reso conto, negli ultimi corti, che stavo prendendo una direzione molto composta e posata.

Diventavo sempre più a mio agio nel fare le cose “precisine”, con i colori e gli equilibri giusti…

Ho così deciso di interrompere questa confort-zone girando un corto per metà con il cellulare, tra l’altro lasciato completamente in balia agli attori.

Stessa cosa nella fotografia: da decine di scatti per raggiungere l’immagine che avevo in testa, ora sono decine gli scatti che invece utilizzo per il risultato finale: li ritaglio, ci scrivo e unisco il tutto con nastro adesivo per “montare” un nuovo senso: più vado avanti e più realizzo la complessità e ii diversi punti di vista che la sfera tematica, che tanto mi è cara, ha bisogno.

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