Nell’atmosfera brulicante di idee dell’All In Festival incontriamo Davide Vigore: un giovane regista, sceneggiatore e produttore cinematografico siciliano che ci concede qualche pillola del suo lavoro: tra scelte, realtà, e cortocircuiti vari, si indaga nella vita di un ecosistema tanto delicato quanto affascinante, fatto di vite parallele, amori travagliati e etichette asfissianti.

Qual è, secondo Davide Vigore, il potere comunicativo di un documentario antropologico nel ventunesimo secolo?

Oggi il documentario in generale ha un potere comunicativo molto forte: si sente l’esigenza di conoscere la realtà delle cose in una società che tende a creare modelli, stili, gusti prestabiliti, si avverte e si sente l’esigenza del reale, non del vero ( ma questo è un capitolo a parte). Poi il documentario antropologico, che ha come finalità scavare l’animo umano, attraverso il reale, restituisce una purezza nelle cose senza particolari filtri.

Il tuo documentario Chi vuoi che sia verte intorno al tema dell’identità.
Il percorso di quest’uomo che è “ciò che gli altri credono che sia” lo porterà ad acquisire finalmente forma o resterà un essere astratto?

Beh, per rispondere a questa domanda potrebbe sicuramente darci una mano Pirandello, ma credo che neanche Massimo abbia interesse a trovare una soluzione, anzi, in questo limbo ci vive benissimo, quindi credo che cerchi continuamente di preservare questa condizione di uomo astratto. Lui si percepisce senza una forma, la persona che si sforza di dargli una forma lo fa più per se stessa, per trovare una sicurezza a quello che già conosce o crede di conoscere.

Quanto il contesto socio-culturale in cui Massimo vive incide sulle sue scelte e quanto peso ha oggigiorno la scelta di non scegliere affatto?

Credo abbastanza, perché un contesto come quello di Palermo, nello specifico il quartiere di Ballarò, ha sicuramente aiutato Massimo nella sua elaborazione, perché, anche se è un contesto che ha l’esigenza di etichettare tutto, è anche mosso da una grande curiosità; questo però non vuol dire che il contesto abbia capito Massimo e viceversa. Massimo quando si è trasferito a Palermo sapeva perfettamente chi era, in maniera precisa, e il contesto non lo aveva capito. Oggi Massimo non sa più chi è, ma il contesto ora invece ha capito.
La scelta di non scegliere oggi è molto complessa, perché la società ti impone sempre una scelta, ma non scegliere ti offre la possibilità di avere un ventaglio di possibilità, e ti rende più libero. La stessa tematica è presente nel mio lavoro, il lavoro del regista non è altro che una continua scelta perenne, e io a volte mi pongo nello status di non escludere nulla: i risvolti nella società, nel non scegliere, il cortocircuito.

Cosa emerge in particolare nel tuo film del rapporto tra individuo e comunità? Quale dei due deve rendere conto all’altro?

Nel mio film sicuramente è la società che rende conto all’individuo, anche se questo è un caso raro. Come dicevo prima, è una convivenza mossa dalla curiosità, non dalla comprensione.

Qual è la qualità imprescindibile che fa di un bravo regista un regista di alto livello?

Credo che sia cercare di non compiacere il pubblico, cercare di raccontare sempre quello che ti interessa e quello che ti riguarda, senza avere la paura di piacere ad ogni costo. Questo coraggio secondo me premia.

The Walkman si pone come obiettivo quello di lasciare spazio e visibilità ai giovani talenti come te. Cosa ti senti di suggerire a chi ha deciso o sta decidendo di investire la propria vita nella creatività?

Di fare dei buoni film, di farli per se stessi, di essere sempre curiosi: credo che la curiosità sia la spinta vitale per fare questo mestiere. Di non accontentarsi mai, anche se porta all’infelicità.